Reinserire la spina del mercato elettrico, la principale sfida del momento dell’Autorità dell’energia

Nell’era glaciale dei consumi, servizi essenziali compresi, il ruolo di un’Autorità di regolazione come quella per l’energia elettrica e il gas è fatalmente scomodo. Quando la torta anziché ingrandirsi si rimpicciolisce, gli scontri per dividersela diventano più aspri e il regolatore più ancora che un arbitro di una partita di calcio animata rischia di assomigliare a un domatore di tigri. Che non a caso nella sua Relazione annuale, presentata in Parlamento lo scorso 26 giugno, si trova costretto a chiedere agli operatori di non sbranarsi tra loro, ciascuno alla ricerca della propria rendita, a discapito di altri portatori di interesse, ma di collaborare insieme per rendere il sistema più efficiente (e dunque se non aumentare le dimensioni della torta, quantomeno diminuirne il tasso di riduzione, a beneficio di tutti). Il riferimento è soprattutto ai protagonisti dei due cicli di investimento nella generazione elettrica negli ultimi dieci anni, i produttori di energia convenzionale (in particolare a gas) e i produttori di energia da fonti rinnovabili.

Non a caso si parla di settore elettrico perché proprio qui si soffermano le preoccupazioni e anche le delusioni principali degli ultimi tempi, in attesa che la regolazione dei servizi idrici decolli (insieme si spera agli investimenti, che sono invece segnalati in deciso calo) e dopo gli importanti successi conseguiti nel settore gas (dalla separazione della rete di trasporto al graduale ma significativo allineamento dei prezzi all’ingrosso e finali alla media europea e infine, notizia della settimana scorsa, il via libera del consorzio azero di Shah Deniz al TAP, al quale ha dato il suo contributo anche l’Autorità italiana che, per la prima volta in coordinamento con i regolatori dei Paesi interessati dell’Unione europea e dell’Energy Community, ha concesso negli scorsi mesi l’esenzione dall’obbligo di accesso dei terzi).

Per molti anni, il settore elettrico ha rappresentato il principale caso di successo della regolazione dell’energia in Italia e più in generale di quella dei servizi a rete (dopo la telefonia mobile, il cui successo è imputabile soprattutto all’innovazione tecnologica e commerciale). Nonostante condizioni di partenza molto complicate solo una decina di anni fa, in termini di efficienza e affidabilità del parco di generazione, con una Borsa che stentava a decollare e una liberalizzazione della domanda finale che si intravedeva soltanto su uno sfondo ancora lontano, nel giro di soli 4-5 anni le condizioni erano decisamente mutate. Grazie ad investimenti nella generazione per più di 20 miliardi di euro, a una significativa ripresa degli investimenti anche nella trasmissione, dopo lo scorporo della rete, e infine a un dinamismo della domanda superiore alla media europea e un multiplo di quella del settore gas, dove pure l’apertura del mercato alle famiglie e alle piccole imprese era avvenuta quasi cinque anni prima.

Poi, proprio sul più bello, cioè quando si incominciavano a raccogliere i frutti di un lavoro ben fatto, grazie alla tela pazientemente tessuta dall’Autorità e dalle altre istituzioni, è arrivato lo tsunami rinnovabile e in particolare fotovoltaico. Che ha spazzato via in appena due anni i guadagni di efficienza che il sistema aveva faticosamente raggiunto, aumentando oltre misura gli oneri di sistema e spiazzando almeno in parte la produzione termoelettrica, grazie ai lauti incentivi concessi da Governi di diverso colore politico in nome di quella che oggi possiamo definire senza troppi peli sulla lingua la fallimentare politica europea in materia climatica e ambientale.

Fatto sta che la frittata è letteralmente caduta nel piatto del regolatore, che meritevolmente, anziché mangiarsela, prova a rimetterla nella padella per darle una forma diversa da quella scaturita dal decisore politico. Ecco dunque il tentativo di internalizzare, almeno in parte, i costi prodotti dalle rinnovabili non programmabili sul sistema e di evitare altre “furbate”, tese ad estrarre rendite ulteriori a scapito di tutti, come nel caso dei sistemi semplici di produzione e consumo e i sistemi efficienti di utenza, che godono dell’esenzione dal pagamento delle componenti parafiscali come gli oneri di sistema (che appunto remunerano soprattutto i sussidi alle rinnovabili, sulle quali questi sistemi prevalentemente si basano).

Più in generale, nel settore elettrico, l’Autorità deve decidere se ricorrere al cacciavite o al martello pneumatico per uscire dal cul de sac nel quale si trova, suo malgrado. Il primo strumento è ben presente nella cassetta degli attrezzi del regolatore, il secondo può essere usato in circostanze eccezionali e nei limiti del mandato legislativo. Entrambi affiorano nelle parole della Relazione AEEG, specie laddove si invoca il ritorno al mercato, eroso dall’impetuosa crescita delle rinnovabili, e una maggiore responsabilizzazione dei principali attori del sistema.

In questo senso, le due sfide principali evocate dalla stessa Autorità appaiono, a monte, l’integrazione tra fonti rinnovabili e generazione tradizionale e, a valle, la “capacitazione” del consumatore. Due fasi della filiera che sempre più dovranno interagire. Per entrambe, appare essenziale l’apporto delle nuove tecnologie, senza le quali non sarà possibile il cambio di paradigma necessario a superare la attuali delusioni del mercato elettrico. La principale sfida dell’attuale collegio da qui alla sua scadenza sarà appunto quella di favorire in tutti i modi possibili la diffusione a costi contenuti dell’innovazione di cui il sistema ha bisogno per uscire dalla palude nella quale si trova. Le tecnologie ci sono già, alla regolazione spetta il compito di trovare la quadratura con i business case individuali e collettivi.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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