Non si può che parlar bene e dare il giusto credito a “Destinazione Italia”, il piano del Governo per aumentare la capacità del nostro Paese di intercettare gli investimenti diretti esteri. In apparenza una mission non impossibile, visto che nel 2012 dell’imponente flusso di 1,35 mila miliardi di dollari che si sono spostati da un Paese all’altro per ragioni non finanziarie neanche 10 miliardi hanno varcato le Alpi verso Sud. Di fatto, un compito molto più arduo di quanto si pensi perché l’Europa, che è ancora la Regione leader nel mondo, sta diventando sempre meno attrattiva (-42% nel 2012 rispetto al 2011) e oggi l’obiettivo prioritario sembra essere quello di mantenere lo stock attuale, cioè il valore cumulato degli investimenti esteri effettuati nel passato (pari in Italia a 357 miliardi di dollari nel 2012). In pratica, senza voler peccare di pessimismo ma semmai solo di realismo, in molti settori lo scenario più probabile è il disinvestimento, non certo un afflusso di nuovi capitali produttivi.
Per questo motivo, al di là dei road show che si faranno nelle più remote parti del mondo per portare il nuovo verbo, la prima vera sfida di “Destinazione Italia” è quella di incidere concretamente sui tavoli romani e nazionali. Sono tantissimi i fronti dove per incultura d’impresa, visione corta, incomprensione della modernità gli investimenti esteri sono stati e sono tuttora pesantemente scoraggiati.
Per una casuale coincidenza temporale, nelle stesse ore in cui veniva annunciato “Destinazione Italia”, tre Ministri dello stesso Governo vietavano per decreto la coltivazione del mais MON810 geneticamente modificato della multinazionale americana Monsanto. Confermando l’orientamento largamente prevalente nelle istituzioni e nella popolazione contro gli OGM. Ma se nella cittadinanza lo scetticismo può essere motivato dalla scarsa informazione, nelle istituzioni è inammissibile che vengano accolte posizioni non supportate né da studi scientifici relativi alla sicurezza alimentare né da valutazione rigorose d’impatto economico. Appellarsi d’altronde alla salvaguardia delle produzioni tipiche italiane appare una posizione estremamente fragile. Ignorando che, ad esempio, il mangime delle mucche dalle quali si produce una delle principale DOP italiane, il parmigiano reggiano, è in gran parte geneticamente modificato (e prodotto rigorosamente fuori dai confini nazionali, con danno per la nostra agricoltura). E come se i campi italiani fossero caratterizzati solo da produzioni di pregio e non anche da colture del tutto standard (a cominciare da mais e grano).
Questa stessa contraddizione, in primo luogo culturale, può leggersi nella miriade di decisioni (o non decisioni) che hanno impedito la realizzazione di importanti infrastrutture che avrebbero beneficiato la collettività, hanno scoraggiato la permanenza in Italia dell’industria farmaceutica, utilizzata come un bancomat per ripianare i deficit della sanità (senza curarsi minimamente delle conseguenze produttive), hanno ostacolato gli insediamenti della grande distribuzione organizzata, hanno bloccato l’upstream nell’Alto Adriatico e in altre aree del Paese, hanno protetto interi settori dalla concorrenza straniera (in particolare nei trasporti e nei servizi pubblici locali). Per citare solo alcuni degli episodi più eclatanti e recenti che hanno contribuito a frenare investitori esteri che sarebbero stati più che felici di impegnare i loro capitali sul suolo italiano. Ma la lista sarebbe quasi interminabile.
Ecco perché, per essere davvero incisivo, è necessario che il piano “Destinazione Italia” partorisca un’Agenzia per gli Investimenti esteri, collocata sotto la Presidenza del Consiglio, in grado di intervenire con pareri qualificati su tutte le principali decisioni che potrebbero avere un effetto sulla presenza presente e futura delle imprese straniere in Italia. La partita degli investimenti esteri si gioca più in Italia che all’estero. Da questa consapevolezza deve partire il lavoro della task force incaricata di redigere nelle prossime settimane il Rapporto del Governo.