Uno dei grandi temi della competizione elettorale in Norvegia, conclusasi appena ieri con la vittoria dei conservatori che hanno scalzato dal Governo il centrosinistra, ha riguardato il futuro del Fondo pensionistico norvegese, che si finanzia con i proventi del petrolio estratto in casa e investe in un ampio portafoglio di attività di vario genere, in particolare azioni di società quotate. Il fondo ha avuto tanto successo, complice l’andamento favorevole dei prezzi petroliferi, che dal 2005 ha quadruplicato il suo valore, raggiungendo i 750 miliardi di dollari. Per dare un’idea, se domani il Governo e il Parlamento di Oslo decidessero di distribuire il capitale a una popolazione che non raggiunge nemmeno 5 milioni di abitanti, ogni norvegese si troverebbe sul conto in banca 145.000 dollari in più (quasi 600.000 dollari per una famiglia di 4 persone).
Ebbene, secondo voi, il dibattito elettorale è stato su una più generosa assegnazione di denaro contante ai norvegesi? Ovviamente no. Da un lato, il Primo Ministro uscente, Jens Stoltenberg, ha affermato ad agosto che non più del 3% del capitale del fondo dovrebbe finanziare il budget pubblico (rispetto al limite attuale del 4%). Dall’altro, Erna Solberg, leader dei conservatori e probabile futuro Premier, ha evidenziato in campagna elettorale che “quello che abbiamo speso finora è per il divertimento di oggi, non abbiamo invece speso per la prossima generazione”. I conservatori, ma anche il Partito del Progresso, che preoccupa per il suo estremismo su altri temi, vorrebbero infatti spendere di più in infrastrutture ed educazione.
In altre parole, entrambi gli schieramenti, in modo diverso, vogliono massimizzare il lascito per le generazioni future, scacciando facili tentazioni di monetizzazione. Che peraltro potrebbero trovare un buon appiglio nella prevista crescita ulteriore del capitale del fondo, secondo le stime del Governo pari al 50% da qui al 2020. Dunque, a voler essere elastici, si potrebbe anche deviare leggermente dal rigore, senza troppi danni apparenti. Ma il rigore, soprattutto verso i propri figli, viene prima di qualsiasi altro aspetto, anche in campagna elettorale.
Tutt’altro approccio da quello italiano, dove anziché una montagna di soldi alle future generazioni lasciamo il terzo debito pubblico al mondo e, non contenti di questo, si sta lavorando con tanto di annunci trionfalistici a un provvedimento che penalizza chiaramente le prossime generazioni, in cambio di altrettanto evidenti vantaggi immediati per le attuali. Si tratta del cosiddetto “taglia bollette”, cioè l’emissione di obbligazioni che spalmerebbe nel tempo una parte degli oneri economici per l’incentivazione delle rinnovabili, che quest’anno dovrebbe raggiungere gli 11 miliardi di euro.
Nella lettera aperta che ho indirizzato al Primo Ministro, che nel discorso al Parlamento per la fiducia aveva solennemente promesso che il suo Governo avrebbe detto “basta coi debiti che troppe volte il Paese ha scaricato sulle spalle e la vita delle generazioni successive” (scaricabile al link https://www.i-com.it/2013/09/03/non-scarichiamo-i-costi-dellenergia-sulle-future-generazioni/), ricordavo che in questo caso scaricare i costi sulle future generazioni è particolarmente ingiusto perché l’aumento dei sussidi alle rinnovabili non è un accidente del destino o un fattore esogeno al sistema Paese ma il frutto di provvedimenti scellerati approvati proprio dalla classe politica attualmente al Governo (penso in particolare al Decreto Salva Alcoa del 2010, appena 3 anni fa, che da solo è costato alcuni miliardi di euro, moltiplicati per venti anni, alle tasche dei consumatori).
In più, è concreto l’ulteriore pericolo che, grazie ai benefici facili in bolletta garantiti dall’emissione obbligazionaria, si pensi di avere più margine di manovra per garantire qualche rendita di posizione supplementare rispetto alle tante già esistenti, caricando la bolletta di qualche onere in più oppure garantendo sgravi aggiuntivi a qualche categoria privilegiata, pagati come al solito da tutti gli altri consumatori.
Peraltro, il piano del Governo non appare di facilissima esecuzione, con il rischio quindi di deconcentrare da altri provvedimenti che porterebbero magari singolarmente minori benefici ma che sarebbero più strutturali e soprattutto a vantaggio di tutti, della generazione attuale e di quelle future.
Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Economico ha ridotto di circa il 50% (da 255 a 139 mila chilometri quadrati) le aree consentite per le attività offshore, il cui rilancio è uno dei punti salienti della Strategia Energetica Nazionale (varata solo pochi mesi fa). Tanto per incrementare ancora di più il gap politico e culturale, alla radice di quello economico, che ci divide dalla Norvegia.