Con comprensibile shock abbiamo appreso stamattina della vendita della quota di maggioranza di Telco, holding di controllo di Telecom Italia, alla compagnia spagnola Telefonica, che già deteneva il 40%. Contrariamente ad altri casi del genere, magari a parti invertite (viene in mente ad esempio l’acquisto di Endesa da parte di Enel), a colpire è stata la facilità dell’operazione. Non che non ce ne fossero le avvisaglie nelle ultime settimane o che l’operazione non fosse una seria possibilità fin dal 2007, quando fu costituita Telco ed apparve chiaro che Telefonica era l’unico soggetto industriale del pacchetto di soggetti che rilevarono il controllo da Pirelli. Ma se in direzione opposta Enel dovette passare attraverso le forche caudine governative e sborsare decine di miliardi di euro con una delicata Offerta pubblica di acquisto protrattasi per mesi, a Telefonica sono bastati poco più di 300 milioni di euro e le riunioni di qualche consiglio di amministrazione nello spazio di poche ore per assicurarsi il controllo di quella che un tempo era la società italiana a maggiore capitalizzazione e che rimane, anche dopo 15 anni di cura dimagrante, uno dei pochi colossi di cui disponiamo.
Sarebbe tuttavia puerile e fonte di nuove illusioni piangere sul latte versato e invocare improbabili linee Maginot per respingere l’invasione. La verità è che i trucchetti del capitalismo all’italiana, costituiti da scatole cinesi e patti di sindacato, benedetti dalla politica, hanno finito per stendere un tappeto rosso di fronte agli spagnoli. A danno dei tanti piccoli azionisti di Telecom Italia. Traendo lezione dal passato, alla politica spetta una volta tanto un compito diverso. Lasciar perdere una volta tanto i destini azionari di Telecom Italia e magari interessarsi di più a quelli della rete, in particolare a quella di nuova generazione, che sono questi sì di interesse pubblico.
Dunque, poco deve interessare alla politica italiana il destino delle partecipazioni di Telecom Italia in Argentina e Brasile (con tutto il dispiacere che un’eventuale perdita arrecherebbe per chi abbia anche soltanto un po’ di orgoglio nazionale), molto più importante è capire cosa voglia fare l’ex monopolista sulla governance della rete telefonica e sugli investimenti in maggiore connettività.
Naturalmente, anche qui la prospettiva deve essere quella del maggior rispetto possibile verso la proprietà privata (e tale è quella di Telecom Italia rispetto a gran parte delle reti fisse italiane) ma le istituzioni hanno tutto il diritto di chiedere che siano fugate il prima possibile le incertezze che circondano attualmente sia la governance di un’ipotetica società della rete che gli investimenti dei prossimi anni. Con il necessario contributo di un contesto regolatorio, finanziario e di mercato che permetta di recuperare il gap che ci divide dal resto dell’Europa e per centrare e magari superare gli obiettivi stabiliti dall’Agenda digitale europea al 2020.
Inutile quindi disperdere le energie suggerendo governance e strategie estere della Telecom Italia a guida spagnola, molto meglio concentrarle invece sulle questioni che dovrebbero interessare le istituzioni più di quanto non sia successo in passato, a partire dalla gestione delle reti esistenti e dalla costruzione di quelle di nuova generazione.