Le ultime stampelle del capitalismo all’italiana e un sogno di fine estate

All’inizio dell’estate, sul finire di giugno, avevamo salutato come un segnale di rinnovamento della finanza italiana l’annuncio del ritiro di Mediobanca dai patti di sindacato delle principali partecipate (Generali, RCS e Telecom Italia). L’abbandono dei salotti finanziari da parte della principale e unica merchant bank italiana degna di questo nome non solo sembrava chiudere davvero un’era del capitalismo italiano ma, rilanciando il principio di una maggiore contendibilità degli assetti proprietari di alcune delle principali public company del nostro Paese, poteva innescare effetti a catena. E in effetti negli stessi giorni, l’AD di Generali, Mario Greco, garantiva che le partecipazioni della compagnia di assicurazioni triestina in altre società in futuro sarebbero state improntate esclusivamente al criterio della redditività e concentrate sul core business. Due concetti ovvi a qualsiasi latitudine ma in Italia sostituiti troppe volte nel passato anche recente da valutazioni extra-economiche, che hanno finito per inquinare gli assetti di mercato.

Passati solo tre mesi e terminata nel frattempo l’estate, il volto peggiore del capitalismo all’italiana sta riaffermando la sua esistenza in maniera inequivocabile.

Due gli episodi più indicativi di questi giorni: la defenestrazione di Enrico Cucchiani dalla guida di Intesa San Paolo e il tentativo assurdo di eleggere Cassa Depositi e Prestiti a cavaliere bianco per congelare la governance delle principali società alle prese con problemi finanziari o di assetto azionario, da ultimo nella partita Alitalia.

Il primo episodio è già agli archivi e ha avuto un suo primo seguito nella riunione del comitato di gestione della banca di ieri. Il secondo si gioca su vari tavoli ministeriali e aziendali e potrebbe dar luogo a importanti sviluppi a breve.

La fine dell’esperienza di Cucchiani alla guida di Intesa San Paolo è anomala sia nei suoi presupposti che nella gestione della vicenda. Naturalmente, i principali azionisti di una società privata sono liberi di assumere le proprie scelte, anche quelle più drastiche e improvvise. Ma, nel caso di una società quotata, dovrebbero quantomeno avvertire l’obbligo morale di motivarle al mercato, una volta che siano state prese nelle segrete stanze. Tanto più che in questo caso, i risultati ottenuti fin qui dal top management che ha guidato la banca negli ultimi tempi erano tutt’altro che disprezzabili. Così come, dopo neppure due anni dall’uscita di Passera, il cambio al vertice è tutt’altro che fisiologico. Una mancanza di chiarezza sulle ragioni dell’uscita che si riflette anche nella decisione ambigua e per certi versi incomprensibile per il comune azionista di trattenere Cucchiani alle dipendenze del nuovo CEO fino al prossimo 1 aprile (nonostante la coincidenza temporale, non si dovrebbe trattare di uno scherzo). Per garantire la transizione? Difficile da pensare, visto che il successore viene dall’interno e 6 mesi sono un periodo decisamente lungo in assoluto, ancor meno giustificati nel caso di un amministratore delegato che ha avuto il timone dell’azienda per meno di due anni.

Se gli azionisti che lo hanno costretto alle dimissioni erano scontenti della sua gestione passata o delle sue idee sulla strategia futura, non si capisce perché debbano continuare ad averlo in casa a suon di euro (pare 900.000 per l’esattezza) per altri 6 mesi.

Nel frattempo, come primo provvedimento ad appena due giorni dalle dimissioni, il consiglio di gestione ha approvato il nuovo piano di rientro sul debito della Carlo Tassara, la holding di Romain Zaleski, indebitata per 1,2 miliardi di euro verso Intesa San Paolo. Difficile pensare a una casualità, che sempre non per caso ridurrà la capacità della banca di generare dividendi o prestare soldi nei prossimi anni ai comuni mortali. Si dirà che in caso di fallimento le conseguenze sarebbero ben peggiori. E’ probabilmente vero, almeno nel breve periodo (anche se non sappiamo quando e in che misura la Carlo Tassara sarà in grado di rimborsare i propri debiti, sottoposti da ieri a moratoria fino al 2016) ma allora perché non invocare le responsabilità di chi ha premuto all’interno della banca per finanziare le spericolate avventure di Zaleski? Finora a pagare, almeno ai piani alti, è stato solo Cucchiani (anche se il conto è stato almeno in parte ribaltato sugli azionisti), che certo non aveva alcun tipo di coinvolgimento nella vicenda, dipanatasi ben prima del suo arrivo.

Se a Milano l’etica del capitalismo sta passando un brutto momento, a Roma le cose non vanno meglio. E’ di oggi la notizia che i principali azionisti di Alitalia, di fronte alle necessità di ricapitalizzare la società e alle dure condizioni richieste da Air France per sottoscrivere l’aumento di capitale ed eventualmente incrementare la propria quota azionaria, stanno attivamente invocando l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti. Complice la comune origine geografica del Ministro per lo Sviluppo Economico e dell’amministratore delegato di CDP. Come se, anziché i destini di una compagnia aerea che dovrebbe avere l’ambizione di volare in tutto il mondo, si stessero decidendo quelli degli autobus di periferia di Padova, la città natale di entrambi. Al momento, sembra che Cassa Depositi e Prestiti stia resistendo (giustamente) all’idea. Ma su questo manca una parola chiara del Governo.

D’altronde non rassicura un Ministro che sempre nella giornata di ieri si è detto preoccupato che la rete Telecom “non sia più sotto il controllo delle autorità italiane: da lì passano molti dati e li vorremmo in qualche modo avere sott’occhio”. Come se il cambio di azionariato facesse venir meno la vigilanza delle autorità competenti e l’occhio del Governo e degli azionisti italiani fossero più rassicuranti di quelli spagnoli. Se guardiamo al passato anche recente, dovremmo sostenere il contrario.

Per la verità non rassicurano neanche recenti operazioni di Cassa Depositi e Prestiti, che con il Fondo Strategico Italiano è entrata da poco nel capitale di Generali, rilevando la quota del fondo pensioni di Banca d’Italia. O che sembrerebbe sul punto di rilevare una quota di Ansaldo Energia, consentendo a Finmeccanica di ottenere una preziosa liquidità ed evitando all’attuale management di esporsi troppo al vento del mercato. Che in un Paese come l’Italia per molti dovrebbe essere sottoposto a rigidi limiti di velocità. Per evitare fastidiosi malanni e perpetuare la gloriosa classe dirigente che ha entusiasticamente contribuito a mandare a rotoli il nostro Paese. Quindi, dopo i refoli di inizio estate, è lecito aspettarsi un autunno temperato. Anche se almeno sognare un futuro diverso non è vietato.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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