Da più di dieci anni il trend prevalente nel settore sanitario sembra essere quello di relegare la definizione delle scelte strategiche a valutazioni di contenimento dei costi. Non è un caso, né è da considerare una semplice sfumatura, la differenza nella strutturazione dei Livelli essenziali di assistenza, prima individuati “contestualmente all’individuazione delle risorse” (D.lgs. 229/1999), poi definiti “compatibilmente” con esigenze di equilibrio della finanza pubblica (D.lgs. 68/2011).
In questo senso, il mancato inserimento nella Legge di stabilità di tagli lineari alla sanità rappresenta certamente un progresso rispetto alle logiche passate. Non tanto e non solo perché evita una riduzione della spesa ma piuttosto perché consente una riflessione più a tutto tondo sulle esigenze di riforma del sistema, allontanandosi da una logica da Bancomat del tutto e subito (che ad esempio ha pesato in maniera sproporzionata sulla spesa farmaceutica, più facile politicamente e rapida operativamente da aggredire e dunque, esclusivamente per questo motivo, la maggiore destinataria di misure di contenimento della spesa).
D’altronde, nel nostro Paese si spende per la Sanità meno della media dei Paesi OCSE: nel 2011 la media dei Paesi OCSE rispetto al PIL era del 9,3%, con gli USA al 17,7% e l’Italia al 9,2%. Se si guarda al tasso di incremento della spesa nel periodo 2000-2011, l’Italia è stato uno dei Paesi OCSE più virtuosi, con una crescita media annua dell’1,8% contro una media OCSE del 4,1%. Se si restringe l’analisi alla sola componente pubblica, che in Italia è percentualmente superiore alla media (nel 2011 77,8% vs. 72,2% della spesa sanitaria), i risultati non cambiano di molto, con una crescita media annua nel periodo 2000-2011 che si è fermata in Italia al 2,3% contro il 4,2% della media dei Paesi più sviluppati. Tanto per fare qualche esempio, nello stesso intervallo temporale l’incremento medio annuo del budget pubblico negli USA è stato del 5%, nel Regno Unito del 4,9%, in Spagna del 4,5% e in Olanda addirittura del 7,4%.
Allargando lo sguardo a un intervallo più lungo, nel ventennio 1992-2011 la spesa sanitaria è aumentata in termini reali del 40,8%. Tuttavia si possono osservare differenti fasi nell’arco del periodo. Nel corso del primo ciclo (1992-1995) si assiste a un decremento successivo all’uscita della lira dallo SME, seguito da due cicli di crescita. Negli ultimi anni è osservabile una stabilizzazione determinata sia dalla necessità di rispettare i vincoli di bilancio e i parametri europei anche da parte delle Regioni, che dal minore trasferimento dei fondi non vincolati da parte dello Stato centrale. Nei cicli di incremento – a partire dal 1999 – si assiste in particolare a una marcata differenziazione della spesa pro-capite a livello regionale. Se si analizza la variazione territoriale della spesa sanitaria (deviazione standard della spesa nazionale) si constata che il valore schizza verso l’alto in un solo anno (nel 2000), cioè prima della riforma costituzionale del 2001, alla quale è dunque imputabile solo in parte (ma deve semmai ascriversi maggiormente alla devoluzione amministrativa della fine degli anni Novanta, oltre alla crescita della spesa in valore assoluto). L’applicazione del patto di Stabilità (2005), i piani di rientro e la soppressione dei trasferimenti statali alle Regioni dal 2008 riducono prima lentamente (2007) la variabilità regionale della spesa sanitaria per poi stabilizzarla, su livelli comunque elevati, negli ultimi anni. In particolare, la deviazione standard della spesa sanitaria pro-capite in Italia (cioè lo scostamento medio delle Regioni rispetto alla media nazionale) è balzata da una media intorno ai 25 euro negli anni Novanta a circa 200 euro nel 2004, per poi lentamente stabilizzarsi poco sopra i 150 euro.
Un fenomeno analogo a quello della divergenza territoriale della spesa sanitaria, è accaduto con la spesa farmaceutica territoriale, dove si osserva nello stesso anno, il 1999, un salto repentino della deviazione standard, che ha superato nel 2006 i 40 euro per poi stabilizzarsi intorno a 30 euro nei due anni di più recente rilevazione (2011 e 2012). Tra l’altro, il dato sulla farmaceutica è ancora più macroscopico in termini relativi (la spesa farmaceutica territoriale infatti incide non certo per il 20% della spesa pro capite sanitaria ma supera di poco il 10%) e in teoria è ancora meno giustificabile, visto che autorizzazione all’ immissione in commercio e prezzi sono decisi da AIFA.
Peraltro in entrambi i casi, è stato sterilizzato il fattore demografico, pesando la popolazione per età.
Occorre dunque capire meglio a cosa sia dovuto questo scostamento tra una Regione e l’altra e, per quanto riguarda la farmaceutica, assicurarsi quantomeno che l’accesso ai farmaci sia uniforme a livello nazionale. In questo senso, l’idea di un Fondo farmaceutico nazionale, che di fatto impedirebbe alle Regioni di utilizzare i loro prontuari terapeutici come strumenti di contenimento della spesa (impedendo o ritardando l’accesso dei pazienti proprio ai farmaci più innovativi), dovrebbe essere presa seriamente in considerazione. A meno che Stato e Regioni non riescano a definire meccanismi più semplici e altrettanto efficaci per arrivare allo stesso risultato. Ma, viste le esperienze passate, con tanto di accordi firmati in sede di Conferenza Stato Regioni, non c’è da sperarci più di tanto.