Da quando, circa 30 anni fa, la Rai è stata chiamata a competere con i soggetti privati nel mercato pubblicitario, si è trovata in una scomoda palude, un guado impantanato tra l’eldorado della tv commerciale e l’oasi del servizio pubblico integrale ed integralmente finanziato da pubbliche risorse economiche, come la BBC, tanto per intendersi, ed è stata lasciata nella doppia veste di servizio pubblico e di unico competitor di rilievo al grande polo commerciale.
La politica, che della Rai è stakeholder, ma che della Rai ha fatto terreno di conquista e spartizione da sempre, sembra quasi divertirsi a lasciare il Cavallo morente nella palude, potendo così colpirlo a suo piacimento, non potendo avere del resto avere un bersaglio più facile. Un soggetto da una parte vincolato dagli impegni del contratto di servizio e dalla necessità di compiere il proprio “remit” di servizio pubblico, dall’altro lasciato senza le adeguate risorse, con il canone più basso tra i Paesi dell’Europa occidentale ed il tasso di evasione più alto, impegnato nel mercato della pubblicità per cercare altre risorse, per un verso, e limiti di affollamento cogenti, per un altro.
A questo fanno pensare le recenti polemiche dei giorni scorsi sui compensi ed i contratti da calciatore delle star Rai. Se la Rai fosse un servizio interamente commerciale, la politica non avrebbe nessun diritto né dovere di questionare su normali dinamiche del mercato e su scelte che hanno comunque una loro economia. Se la Rai fosse solo un servizio pubblico, quelle cifre semplicemente non sarebbero possibili, anche se, è bene ricordarlo, lasciare un soggetto con le sole risorse pubbliche non vuol dire impoverirlo e renderlo incapace di competere nel mercato degli ascolti: la BBC non è l’americana PBS. Nell’incertezza tra l’uno e l’altro, però, tutto può essere detto, perché i parametri con cui misurare questo o quello stipendio sono del tutto variabili, spesso in funzione di interessi di parte.
Scindere le due anime della Rai sarebbe forse potuta essere una soluzione per aprire il mercato televisivo italiano, senza dover chiedere a qualcuno di superare da solo le enormi barriere d’entrata che esso comporta. Siamo ancora in tempo? Se si pensa che il servizio pubblico nei media abbia senso anche nell’era di internet, forse è utile pensarci.