Da quasi un quarto di secolo, l’Europa dispone di una serie di misure volte a proteggere la sua industria audiovisiva. Proteggerla da cosa? Naturalmente dalle major di Hollywood (e dai cartoni animati giapponesi). La decisione fu presa proprio alla fine del decennio, gli anni ’80, caratterizzato dalla ascesa delle TV commerciali, il cui successo era basato proprio su film e fiction made in USA (indimenticabile la “guerra” tra Dallas e Dinasty, che Canale5 e Retequattro combatterono, prima che la seconda fosse comprata dalla prima…). Accolto come un provvedimento protezionista e contrario al libero mercato, l’imposizione di dedicare almeno il 50% del trasmesso (al netto di news, programmi sportivi, giochi e pubblicità) ad “opere europee” e di riservare una quota del 10% alla produzione indipendente, ha contribuito a far emergere e crescere l’industria audiovisiva europea, e forse anche a recuperare e preservare la nostra identità, e trovare un equilibrio tra la diffusione di culture di varie parti del mondo.
Nel 2007, la Direttiva è stata aggiornata, per tenere conto dei cambiamenti tecnologici ed includere nelle quote anche i servizi “non lineari” cioè tutti quei servizi audiovisivi che non fanno parte di un palinsesto deciso dall’editore, ma che l’utente consuma nel momento in cui lo desidera. L’implementazione sui servizi non lineari ha già però posto diversi problemi e gli Stati membri, nel recepire la Direttiva, hanno adottato criteri diversi e non univoci.
Ora che la convergenza ha preso piede, e che si sta entrando nell’era dei media interconnessi, però, la faccenda si complica ulteriormente. Come valutare le quote dei cataloghi on demand di servizi come Netflix e iTunes? O, ancora più difficile, come comportarsi nei confronti di quei servizi che usano piattaforme di condivisione come Youtube, piattaforme che per loro natura sono considerati meri intermediari? Come si fa, ad esempio, ad applicare il meccanismo delle quote alle webseries che si vedono su Youtube?
La Commissione Europea ha ben presente il problema ed ha dedicato ieri a questo tema un interessante workshop in cui regolatori, gestori di piattaforme e di servizi, distributori, operatori Telco ed altri esperti si sono confrontati. Poco da dire sul fatto che le quote così come sono non possono servire. Anche quando il catalogo di un servizio on demand offre un numero sufficiente di opere europee, se non viene fatto un adeguato lavoro di promozione, per dare a questi titoli una giusta preminenza, di fatto è come se non esistessero, annegando in un mare di titoli in cui l’utente medio cerca approdi sicuri nei blockbuster. Non a caso, dati alla mano, anche laddove il catalogo offre un’ampia scelta, i consumi di opere europee sono bassissimi (certo, anche per la direttiva sui servizi lineari non si pretendeva mica di misurare le quote in base agli ascolti). Ma se si conviene che le quote durante questi anni abbiano avuto una funzione strategica nel promuovere e tutelare l’industria della creazione e dei contenuti in Europa, e che preservare questa industria sia una priorità dell’Europa, è opportuno che qualcosa venga fatto. Probabilmente il protezionismo in quanto tale non è più uno strumento efficace, e bisogna incidere più in profondità e più a monte, mettendo l’industria nelle condizioni migliori per competere, intervenendo con incentivi che stimolino la produzione nei territori europei, creando e favorendo economie di scala che consentano una competizione a livello globale e evitino che la frammentazione europea sia in totale balia dei giganti di oltreoceano. Ed occorrono, ovviamente, regole chiare, magari non troppe, ma che valgano per tutti.