Legambiente è oggi la principale voce in Italia a favore dell’ambiente. Con maggiore scaltrezza di Greenpeace e del WWF, due colossi mondiali, è riuscita a imporsi sulla scena pubblica nazionale negli ultimi venti anni. Grazie a molti dirigenti che nel passato e nel presente hanno assicurato una buona solidità all’organizzazione e ai contenuti. Proprio per questo motivo, non si può che trasecolare di fronte ai dossier di Legambiente contro i sussidi alle fonti fossili.
Intendiamoci, è del tutto naturale che un’organizzazione come Legambiente sia contraria alle fonti fossili e voglia una transizione il più possibile rapida verso fonti pulite. Ci sarebbe da preoccuparsi del contrario. Ma il modo in cui si conducono operazioni di questo tipo non è un dettaglio trascurabile, in un Paese poco incline ai numeri e a un corretto approccio scientifico ai problemi. Soprattutto se si pretende di colmare il vuoto di conoscenza con cifre e dati sommati arbitrariamente, senza prendere nella giusta considerazione banali fatti. Esattamente quello che accade con i periodici dossier di Legambiente sui sussidi di cui godrebbero nel nostro Paese le fonti fossili, l’ultimo dei quali rilasciato pochi giorni fa. Proprio in coincidenza con la chiusura non proprio esaltante della conferenza sul clima di Varsavia. Quasi a suggerire che dietro l’insuccesso della COP19 ci sia la longa manus di petrolieri, produttori di carbone e qualche altro nemico dell’umanità.
Ma le coincidenze non sono solo temporali, peraltro una conferma dell’efficacia della strategia mediatica di Legambiente. Quel che subito sorprende il lettore avvezzo ai numeri dell’energia è che in un solo anno i sussidi incriminati sarebbero passati da 9,1 a 12,1 miliardi di euro. Stupisce in particolare il singolare parallelismo con il trend dei costi dei sussidi alle rinnovabili, che dai 9,2 miliardi di euro del 2012 (ultima Relazione AEEG) varcheranno quest’anno gli 11 miliardi di euro (in base ai dati provvisori contenuti sul sito GSE). Anzi, rispetto all’incremento già di per sé elevato degli oneri di incentivazione delle rinnovabili (che solo nel 2011 non andavano oltre 6,6 miliardi), quello imputato alle fonti fossili appare ancora maggiore. Quasi a nascondere gli sbagli compiuti sul fronte del fotovoltaico, riconosciuti sostanzialmente da tutti. In una corsa a individuare il più cattivo che punta ad accendere le tifoserie più che ad analizzare la situazione con la necessaria obiettività.
Le perplessità peraltro aumentano valutando le tre componenti che giustificano secondo Legambiente il formidabile balzo in avanti degli aiuti alle fonti fossili: i sussidi diretti ai trasporti e quelli indiretti a strade e autostrade e alla produzione domestica di idrocarburi (chiamata “trivellazioni”, con poco concessione al rigore terminologico e molta ai consueti pregiudizi).
Per quanto riguarda i sussidi ai trasporti, si tratta delle agevolazioni per diverse categorie economiche per le quali il carburante rappresenta un fattore di costo importante, cioè autotrasportatori, agricoltori, compagnie di navigazione, ecc.. In realtà non c’è stato un particolare balzo in avanti tra 2011 e 2012 ma Legambiente ha tirato fuori uno studio dell’OCSE con dati 2011 che ha aggiunto al pacchetto statistico di mischia che in origine riguardava solo l’autotrasporto, implacabilmente sceso dai 500 milioni del 2012 ai 400 del 2013. Al di là di qualche dubbio di carattere metodologico sull’opportunità di questa new entry che rende i dati da un anno all’altro poco comparabili, appare un po’ singolare in uno dei Paesi che tassa maggiormente i carburanti al mondo considerare nella colonna di destra le agevolazioni (poco più di 2 miliardi di euro secondo l’OCSE) dimenticandosi totalmente del valore assoluto sulla colonna di sinistra (nello stesso anno pari a 37,2 miliardi di euro, peraltro lievitati l’anno successivo a 42,3, secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze presentati nell’ultima relazione annuale di Unione Petrolifera). In realtà, sarebbe più corretto dire che in Italia, rispetto alla media UE o OCSE, i sussidi sono decisamente negativi. Che poi questo accada per motivi ambientali o piuttosto per esigenze fiscali è un altro discorso, che non ci sembra cambi granché la questione.
Ma mentre sui sussidi diretti ai trasporti si può almeno discutere perché i dati citati sono veri, sui sussidi indiretti si esce dal campo di quello che dovrebbe essere considerato lecito in un qualsiasi lavoro statistico. In particolare, ci si riferisce alla voce legata a strade e autostrade, che si gonfia dai 3,3 miliardi del 2012 ai 4,3 miliardi del 2013, nonostante la riduzione registrata dagli investimenti (che Legambiente considera negativi perché incoraggiano il trasporto su gomma rispetto a modalità di trasporto più eco-compatibili). Infatti, la differenza è spiegabile con 1,9 miliardi di crediti d’imposta accordati alla futura autostrada Orte-Mestre. O meglio che potrebbero essere accordati in futuro perché per ora c’è un’iniziativa a uno stadio ancora preliminare approvata dal CIPE (che sappiamo bene nulla garantisce riguardo al risultato finale) e non c’è ancora un soggetto vincitore della gara che dovrà essere bandita. Dunque, per definizione non può essere individuato per ora e chissà per quanto altro tempo un beneficiario. Inoltre, quei crediti previsti dalla legge sarebbero spalmati su un periodo molto lungo (almeno 15-20 anni), dunque, anche qualora il credito dovesse prima o poi concretizzarsi (ma certamente non nel 2013), quella cifra non potrebbe essere conteggiata per intero su un solo anno.
Infine, anche sulle “trivellazioni” non fa difetto all’analisi una notevole dose di arbitrarietà. Infatti, Legambiente calcola il sussidio, come già fatto nell’anno precedente, come la differenza tra la tassazione che giudica corretta (bontà sua il 50% per le royalties più canoni più elevati per i permessi di prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggi)) con quella effettiva. Fatto sta che nel 2011 si sarebbe passati da 210 milioni a 1,6 miliardi mentre nel 2012, l’anno preso in considerazione per il dossier di quest’anno, il salto sarebbe addirittura da 334 milioni a circa 2,7 miliardi di euro. Anche in questo caso, a parte i dubbi metodologici sul metodo di calcolo sul quale si potrebbe discutere, il dato non appare credibile per la ragione elementare che a una tassazione decisamente più elevata rispetto al livello attuale corrisponde anche un livello di investimenti significativamente minore, specie in un mercato come quello degli idrocarburi con aziende globali e al contempo, come in tutti i settori di attività, risorse scarse da impiegare. E’ evidente che in queste condizioni gli investimenti si dirigano verso i progetti più remunerativi e che un conto è il profitto che si può ricavare con royalty al 10%, tutta un’altra storia quello con royalty al 50%. Non bisogna essere degli scienziati delle finanze per comprendere come ipotizzare che l’elasticità fiscale sia pari a zero, di fronte a variazioni così elevate dell’aliquota rilevante, sia palesemente irrealistico.
Insomma, il consiglio a Legambiente non è naturalmente quello di diventare un sostenitore delle fonti fossili ma di continuare le proprie battaglie basandole su dati oggettivi e ricerche serie. Come la sua storia passata e il suo ruolo presente meriterebbero, insieme ai tanti italiani giustamente interessati a un ambiente più sostenibile così come a un’economia competitiva. I due obiettivi non sono per forza alternativi ma per conciliarli occorrono policy basate su analisi rigorose. Altrimenti, nell’energia e in altri settori cruciali, non potremo più lamentarci per le fughe in avanti, magari frutto di emendamenti notturni alle Leggi finanziarie e oggi di stabilità, di volta in volta utili a qualcuno ma dannosi per l’interesse generale.
Che ognuno faccia il suo con la massima serietà. Altrimenti, il Paese non lo muoviamo di certo in avanti ma al massimo indietro o di fianco, comunque nella stessa direzione sbagliata verso cui è andato per troppo tempo.