Sui media italiani, sempre più dominati da questioni di politica interna, è passato sostanzialmente inosservato il recente attivismo internazionale del Ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando.
Queste sono infatti settimane intense a Bruxelles e nelle principali capitali europee, in vista della presentazione da parte della Commissione europea il prossimo 22 gennaio del nuovo pacchetto clima ed energia. In quella sede si definiranno le strategie del vecchio continente al 2030, scavallando l’attuale orizzonte temporale di policy che si ferma al 2020.
Nei giorni scorsi, alcuni mezzi di stampa internazionali hanno reso noto i passaggi principali di due lettere spedite da alcuni Governi ai due commissari competenti, la danese Connie Hedegaard per l’azione per il clima e il tedesco Günther Oettinger per l’Energia. Nella prima, inviata in realtà il 23 dicembre, i Ministri di Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia e Portogallo chiedono che nella strategia al 2030 sia imposto anche un obiettivo vincolante sulle rinnovabili, oltre ad uno sulle emissioni climalteranti, in continuità con la strategia attuale. Nella seconda, recapitata nei giorni scorsi dai Ministri di Francia, Germania, Italia e Regno Unito, si supporta la posizione della Commissione europea, già enunciata nel Green Paper della scorsa primavera, orientata a proporre un target di riduzione del 40% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990.
Un osservatore poco esperto dei temi in questione potrebbe elogiare una volta tanto il protagonismo del Governo italiano, in passato più volte escluso dal quartetto dei grandi Paesi europei, con grande scorno per il nostro orgoglio nazionale, e non sempre presente con posizioni chiare e coraggiose sulla scena continentale. A una lettura più attenta della forma e della sostanza, non bisogna tuttavia necessariamente essere un oppositore dell’attuale Governo o mal disposti verso il Ministro dell’Ambiente in carica, Andrea Orlando, per cambiare radicalmente giudizio.
Partiamo innanzitutto dalla forma, cioè da chi ha sottoscritto le lettere nei diversi Paesi firmatari. Secondo quanto è stato riportato dai media che hanno divulgato i contenuti essenziali delle missive, in Germania, dove le competenze su energia e ambiente sono divise tra Ministero dell’Economia e Ministero dell’Ambiente, a sottoscriverle sono stati entrambi i ministri. Diversamente, in Francia e Regno Unito, dove le funzioni sono accorpate, la firma è del ministro competente su entrambi i temi. Perché allora in Italia, che ha una situazione analoga a quella tedesca, ad assumersi la responsabilità delle posizioni espresse nelle due lettere è stata solo un Ministro, Andrea Orlando, mentre l’altro Ministro competente non ha firmato? In soldoni, Zanonato non ha sottoscritto le missive perché non è stato informato oppure perché non era d’accordo? O magari per uno strano principio di delega che dubitiamo possa essere impiegato da un politico navigato come il titolare dello Sviluppo Economico, che sa perfettamente che lasciare è peccato per chi vuole avere un ruolo da attore protagonista nell’arena pubblica? La risposta a queste domande è tutt’altro che insignificante rispetto a uno dei temi di policy più cruciali che le istituzioni pubbliche a ogni latitudine sono chiamate di questi tempi a gestire. E tra l’altro l’assenza di ogni indicazione in tal senso contraddice lo sforzo di trasparenza e anche di collaborazione messo in campo dai due Ministeri nel varo della Strategia energetica nazionale durante il Governo Monti. Urge dunque un chiarimento per evitare che, anche qualora si fosse trattato di una disattenzione o di un equivoco, questo non diventi un vulnus importante all’indispensabile dibattito pubblico in materia.
Le perplessità non riguardano però solo il processo decisionale che ha portato alla definizione di una posizione ufficiale del Governo italiano ma anche e soprattutto la sostanza di quanto è stato deciso in casa nostra (o meglio dal Ministro Orlando perché non abbiamo alcun elemento che ci dica che la sua presa di posizione è frutto di una decisione collegiale e anzi diverse polemiche sulle rinnovabili, che hanno visto protagonista il Ministro Zanonato, ci darebbero degli indizi contrari, evidentemente tutti da confermare).
Lo scenario di riferimento della Commissione europea su energia, trasporti ed emissioni di gas serra, uscito proprio a dicembre e basato sul modello PRIMES, prevede che dei quattro Paesi che hanno sottoscritto la lettera supportando l’indicazione di un target di riduzione del 40% al 2030, due, Germania e Regno Unito, non faranno alcuna fatica a centrare l’obiettivo. Si stima infatti che, nel periodo rilevante e in assenza di shock, la Germania ridurrà le sue emissioni del 46,8% e il Regno Unito del 45%. La Francia dovrà fare uno sforzo in più (con le misure già intraprese, si stima che nel 2030 il calo delle emissioni si fermerà al 27,5%) ma solo per l’Italia il target del 40% si presenta sotto forma di una montagna da scalare di cui non si intravede neppure la vetta, collocata a un’altezza quasi doppia rispetto a quella che, secondo le previsioni della Commissione europea, dovremmo essere in grado di raggiungere con l’attuale attrezzatura (il 20,7%).
Si può sempre dire che c’è tempo e modo per mettere in campo le iniziative necessarie a rinvigorire la marcia oppure a negoziare asperità più basse per il nostro Paese. Ma diversi elementi ci fanno storcere la bocca.
A cominciare dall’esperienza del Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997 e che ci imponeva entro il periodo 2008-2012 un obiettivo di riduzione del 6,5% (a fronte dell’8% assegnato in media all’Unione europea pre-allargamento). Anche in quel caso ci eravamo avvicinati al negoziato internazionale in maniera baldanzosa, senza tenere conto della situazione reale descritta dai dati e dunque dei nostri interessi nazionali o comunque non essendo in grado di far valere le nostre posizioni quando si è trattato di raggiungere un accordo sul burden sharing tra i Paesi UE. Fatto sta che, unico tra i quattro grandi Paesi europei che oggi chiedono obiettivi decisamente più ambiziosi rispetto a quelli individuati dal Protocollo di Kyoto, non abbiamo rispettato gli impegni che ci eravamo presi (largamente rispettati, sommando i settori ETS e non ETS, da Francia, Germania e Regno Unito). Diceva Karl Marx che “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Ma non sarebbe politically correct inchiodare un giovane ministro del PD di scuola DS al filosofo di riferimento del comunismo, che pure non sempre sbagliava.
Al di là del parallelismo un po’ sinistro con il passato, avvicinarsi al tavolo del negoziato dal quale scaturiranno gli obiettivi nazionali appoggiando pubblicamente posizioni ambiziose non appare la via migliore per acquisire leverage contrattuale con gli altri Paesi, a cominciare da quelli che preferirebbero target più modesti, ed uscirne con sconti significativi rispetto alla riduzione media prevista. Non bisogna aver letto von Clausewitz o aver studiato la teoria dei giochi per comprenderlo.
Per non dire che, al di là dei retroscena su chi abbia sottoscritto le lettere a nome dell’Italia, una discussione pubblica interna sul tema appare la condizione minima prima di assumere decisioni così impegnative per il futuro del Paese, specie per un Governo di larghe intese e a termine. In Germania, i temi ambientali ed energetici sono stati al centro dei negoziati che hanno portato al varo del nuovo Esecutivo a guida Merkel, nel Regno Unito il Governo ha risposto alla consultazione pubblica sul Green Paper della Commissione europea, impegnando così non solo il Ministro Davey che da molti mesi si spende pubblicamente sul tema in patria e fuori. In Italia c’è un altro Governo di coalizione, anche più eterogeneo, se non altro numericamente, rispetto a quelli tedesco e britannico, ma decisioni così rilevanti vengono (apparentemente) lasciate alle opinioni, assolutamente legittime e rispettabili, di un singolo Ministro. Una metodologia di lavoro che in qualsiasi altro Paese sarebbe del tutto inaccettabile.
Ma se la lettera a favore di un target di alto profilo di riduzione delle emissioni poteva avere un senso (contribuire a dimostrare al resto del mondo la serietà dell’Europa, a cominciare dai suoi Paesi più importanti, un intento che purtroppo finora non ha scaldato granché le menti e i cuori del resto del pianeta), quella sulle rinnovabili, dal punto di vista dell’interesse nazionale, ne ha ancora meno.
Tra gli 8 Paesi firmatari, l’Italia è quello per il quale la Commissione europea pronostica la minore penetrazione delle rinnovabili sui consumi finali al 2030 (il 19,7%), eccetto il Belgio. Se obiettivo vincolante ci sarà, è probabile che si aggirerà intorno al 30%, asticella che 3 dei firmatari (Austria, Irlanda e Portogallo) dovrebbero superare agevolmente secondo le stime del modello PRIMES e alle quali sia Francia che Germania dovrebbero avvicinarsi, rispettivamente con il 27,8% e il 25%, anche in assenza di interventi aggiuntivi rispetto a quelli già previsti.
D’altronde non è un caso se il Regno Unito, per il quale si prevede una proiezione percentuale al 2030 di poco minore a quella italiana (18,5%), sta facendo pubblicamente e privatamente lobbying in senso contrario al gruppo degli 8, in favore di un unico obiettivo vincolante sulle emissioni.
Tanto per dire, la stessa Polonia, che da sempre fa fuoco e fiamme contro gli aneliti ambientalisti dell’Europa e minaccia di far saltare il tavolo che apparecchierà nelle prossime settimane la Commissione, non ha numeri molto lontani dai nostri. In proiezione 2030, secondo gli scenari della Commissione europea, dovrebbe viaggiare su una riduzione delle emissioni del 18,9% (contro il 20,7% dell’Italia) e su una penetrazione delle rinnovabili del 18,5% (contro il 19,7% italiano).
Può andar bene, in qualità di Stato fondatore e in omaggio alla retorica ambientalista, usare uno stile più urbano della Polonia ma pretendere di recitare una parte per la quale non siamo affatto preparati è solo un indizio in più di scarsa serietà più che di buona credibilità internazionale e, quel che è peggio, una cambiale onerosa a carico delle future generazioni. Che il governo dei quarantenni avrebbe il dovere di proteggere, non solo dalle conseguenze ambientali dei cambiamenti climatici (sui quali poco possiamo incidere singolarmente purtroppo) ma anche dall’impatto economico degli impegni presi alla leggera (che rischiano di ipotecare seriamente il futuro di imprese e consumatori, già messi sufficientemente a dura prova).
Se, come credo, la riduzione di emmissioni “facilmente” raggiungibile dalla Germania sarà conseguita anche attarverso la chiusura e/o riconversione (a gas?) di centrali a carbone, questo fatto – da solo – rende, a mio avviso, la scelta di Orlando del tutto condivisibile, funzionale agli interessi del paese ed anche negozialmente utile.
Con un energy mix sempre piu basato su gas e rinnovabili l’Italia è già il futuro dell’energia in Europa. Tutto ciò che porta l’Europa in quella direzione è decisamente un concreto interesse del nostro Paese.