Proprio nei giorni in cui si festeggiavano i sessant’anni del broadcaster pubblico e a due settimane dalla scadenza del termine per il pagamento del canone Rai, il DG Gubitosi ha chiesto ai responsabili di Sky Italia di esercitare una sorta di “moral suasion” su quella fetta di propri abbonati non in regola con l’”imposta per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione delle trasmissioni televisive” che – secondo uno studio riservato condotto proprio dalla Rai – sarebbe costituita da circa 1,2 milioni di famiglie. L’aspetto più sorprendente della “richiesta di aiuto” che potrebbe portare nelle casse della Rai circa 130 milioni di euro risiede nella contropartita offerta all’operatore satellitare. In cambio del sostegno a snidare gli evasori il pubcaster porrebbe immediatamente fine all’oscuramento dei propri canali sui decoder Sky.
Del do ut des respinto al mittente se ne è parlato diffusamente la settimana scorsa su vari organi di stampa. (Per un approfondimento vedi in particolare qui).
Al di là della eventuale violazione delle norme sulla privacy, pare davvero poco verosimile che Sky possa arrivare a denunciare al fisco propri abbonati che in base alle informazioni riservate in suo possesso, risultino in difetto del pagamento del canone Rai. Si tratta peraltro di quegli stessi abbonati che non possono vedere i programmi del servizio pubblico in quanto Rai da diversi anni ne cripta il segnale in violazione dei principi di universalità, di neutralità tecnologica e di non discriminazione come ribadito da recenti sentenze amministrative. Per ovviare a questo problema – per completezza di informazione – va detto che Sky ha reso disponibile ai propri utenti una pennetta usb che permette di vedere il digitale terrestre aggirando il criptaggio Rai.
Se intende realmente porre rimedio al fenomeno dell’evasione del canone da parte non solo delle famiglie ma anche di esercizi pubblici, partiti, associazioni, aziende (i cosiddetti “canoni speciali”), – le ultime stime parlano di un tasso tra il 25 e il 27% con un mancato introito di circa 500 milioni di euro – la concessionaria del servizio pubblico farebbe meglio a mettere in atto le soluzioni di cui si parla da anni ovvero l’ancoraggio diretto della tassa alla bolletta elettrica, come già accade in altri Paesi europei e/o l’affidamento delle attività di riscossione e controllo all’Agenzia delle Entrate come auspicato nei giorni scorsi dal suo responsabile Attilio Befera. Se una riduzione a livelli fisiologici (la media europea si attesta al 10%) del tasso di evasione porterebbe ad una situazione di maggiore equità rimettendo in ordine i conti dell’azienda pubblica, rimarrebbe irrisolta la questione relativa alla legittimazione del servizio pubblico in una fase cruciale come quella attuale. Fermo restando che il tema non può non essere affrontato in sede politica (non a caso esiste una Commissione Parlamentare ad hoc), tra gli addetti ai lavori cresce il consenso attorno alla necessità di aprire una riflessione ampia ed approfondita sul concetto di servizio pubblico radiotelevisivo nell’era del digitale e degli online media. Tanto più che mancano solo due anni alla scadenza della convenzione Stato-Rai e questa volta non sarà possibile un tacito rinnovo a livello amministrativo, rendondosi necessario un passaggio parlamentare. Una grande occasione da cogliere per ridisegnare un sistema di regole inadeguato ed antiquato. In primo luogo va sottolineato che l’intervento pubblico nel settore tv e media trova ancora una sua forte legittimazione per la rilevanza attribuita al mezzo, alla sua influenza sui comportamenti politici e sociali nonché per il ruolo a tutela dell’identità nazionale e locale. D’altro canto lo strumento usato sinora (un solo broadcaster specializzato, finanziato in parte dal canone e in parte dal mercato) sembra – secondo alcuni osservatori – aver perso progressivamente la propria utilità ed efficacia tenuto sotto i colpi dell’esplosione della multicanalità e della fruizione multipiattaforma ma anche dell’eccessivo condizionamento dalla politica.
Guardando alle differenti esperienze internazionali, è lecito allora interrogarsi su quale modello o quali modelli di “public media company” pensare in previsione di uno scenario sempre più influenzato dall’evoluzione tecnologica e dalla personalizzazione dei contenuti.
E’ verosimile immaginare anche in Italia una pluralità di broadcaster pubblici (come ad esempio in Belgio, Danimarca, Norvegia, Germania) o ancora ipotizzare un sistema in cui anche alle reti private possano – a determinate condizioni e in base a specifici requisiti – essere concessi singoli programmi di servizio pubblico da finanziare attraverso una quota del canone ?
Se questa prospettiva non è più considerata una mera ipotesi di scuola, si potrebbe allora immaginare la creazione di un circolo virtuoso che possa condurre addirittura ad un aumento progressivo delle risorse pubbliche disponibili (da far affluire ad una sorta di trust sganciato dall’esecutivo), a fronte di un innalzamento della qualità e ricchezza e diversità dei programmi di servizio pubblico. Siamo convinti che gli utenti maggiormente soddisfatti dalla fruizione di contenuti maggiormente distintivi, autorevoli e plurali pagherebbero molto più volentieri il canone e che l’intero mercato televisivo ne trarrebbe giovamento in termini di maggiore concorrenza ed innovazione.