Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di ieri sera, Barack Obama ha rivendicato con forza come negli ultimi 8 anni gli Stati Uniti abbiano abbattuto le emissioni di CO2 più di qualsiasi altro Paese al mondo (-12% tra 2007 e 2012). Merito in gran parte dello shale gas, un capitale naturale che tuttavia è stato messo a buon frutto dalla grande capacità di innovazione del capitalismo americano e dei suoi uomini migliori (su tutti George Mitchell, pioniere del fracking) alla quale, dettaglio non da poco, non hanno messo i bastoni tra le ruote politici e burocrati. Grazie a questo mix di buona sorte e capacità di fare sistema, il presidente degli Stati Uniti ha potuto preventivare ieri quasi cento miliardi di dollari in investimenti nei prossimi anni in impianti produttivi che andranno a gas e ha incoraggiato il Congresso a incentivare una riconversione della mobilità dal petrolio al gas. E sempre grazie al dividendo energetico che si trova in casa, Obama può proporre di togliere al settore fossile 4 miliardi di incentivi per destinarli a fonti pulite e gli USA si possono permettere che ogni 4 minuti un’abitazione o un’impresa metta in esercizio un nuovo impianto solare, come ricordato nel discorso di ieri.
Infatti, rispetto alle controparti europee le imprese americane pagano in media il gas da 3 a 4 volte di meno e l’elettricità circa la metà. Nello studio sui prezzi e i costi dell’energia pubblicato la scorsa settimana dalla Commissione europea, colpisce in particolare un grafico a pag. 192, che proietta al 2015 i costi medi delle imprese manifatturiere dei principali Paesi esportatori. Tra le 7 nazioni considerate (USA, Cina, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito e Italia), l’Italia presenta i costi più elevati. Il differenziale di costo che la divide complessivamente dagli Stati Uniti (pari a 18 punti, fatto 100 il costo complessivo medio di un’impresa manifatturiera a stelle e strisce) è spiegabile in parte significativa dal maggiore costo del lavoro (che vale 12 punti in più rispetto agli USA) ma non secondario è il ruolo dell’energia (equivalenti a ben 8 punti in più rispetto ai costi totali di un’azienda americana tipo). Tolte queste due componenti, l’Italia sarebbe sostanzialmente in linea con tutti gli altri Paesi, Cina inclusa, con qualche lieve vantaggio competitivo su Stati Uniti, Francia e soprattutto Regno Unito. Ma a soffrire, non molto meglio posizionate rispetto a noi, sono anche Francia e Germania, che secondo le previsione contenute nello studio accuseranno nel 2015 un ritardo competitivo sugli USA del 16%. Non è dunque un caso che i settori politici tedeschi più sensibili alle ragioni dell’industria stiano sempre più mettendo in discussione l’ortodossia della Energiewende, la strategia energetica che dovrebbe portare il principale Paese europeo verso un’economia low carbon in gran parte basata sulle rinnovabili (ma al momento molto dipendente dal carbone e dai sussidi alle industrie energivore, peraltro nel mirino di Bruxelles). Proprio ieri, è sceso per la prima volta in campo un peso massimo, il Ministro delle Finanze Wolgang Schäuble, che ha annunciato la volontà del Governo di ribilanciare il rapporto tra le ragioni dell’ambiente e quelle dell’industria a favore di quest’ultima. Insomma, giusto proteggere l’ambiente ma nei limiti di un’economia e di un comparto industriale competitivo. Se l’ambiente diventa una variabile indipendente o si vagheggia una trasformazione a costo zero o addirittura con payoff positivo per tutti verso un’economia low-carbon o addirittura carbon free si rischia di andarsi a scontrare con la realtà dei fatti e non si farà del bene nel lungo periodo né all’industria né all’ecologia.
Tutto questo dovrebbe essere ben presente alle istituzioni italiane. Ma non sempre lo è. Bene ha fatto il Governo, come anche da noi suggerito qui e qui, a istituire nei giorni scorsi una cabina di regia per coordinare la posizione italiana sulla strategia energetica e climatica europea al 2030, dopo le improvvide fughe in avanti del Ministro Orlando. Sarebbe stato meglio evitare la figuraccia (specie se la posizione italiana, sulla base del lavoro preparatorio di Enea e RSE, risulterà alla fine differente da quella sottoscritta incautamente dal titolare dell’Ambiente, insieme ad alcuni suoi colleghi europei) ma meglio tardi che mai. Così come il link indiretto tra sostenibilità e capacità di sfruttare bene le risorse naturali a disposizione era senz’altro una delle ricette forti della Strategia Energetica Nazionale, licenziata dal Governo Monti quasi un anno fa. Peccato che, come riportato ieri dal Sole 24 Ore, la produzione effettiva di petrolio in Basilicata, dove abbiamo il più grande giacimento continentale in terraferma, sia ancora molto al di sotto del potenziale, per non parlare del gas offshore dell’Adriatico e di tanti altri pozzi in attesa di essere sfruttati (beninteso secondo rigidi standard ambientali e di sicurezza).
Può il nostro Paese (e in generale l’Europa) permettersi il lusso oggi più di ieri di trascurare le proprie risorse e di penalizzare settori industriali centrali per la nostra ricchezza passata, presente e speriamo futura, rincorrendo sogni di improbabile realizzazione? Se altri Paesi europei, con ben altra tradizione ambientalista, incominciano a porsi seriamente questa domanda, non si vede perché non dovremmo farlo anche noi. Provando a trovare anche qualche risposta, dopo tutte le riflessioni del caso, prima che sia troppo tardi.