Nomine pubbliche, i criteri che mancano per una rottamazione meritocratica

Nei giorni scorsi si è ufficialmente aperta la partita delle nomine nelle società partecipate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, un ampio ventaglio di 76 consigli di amministrazione e collegi sindacali in scadenza quest’anno che va dai colossi Eni, Enel, Finmeccanica e Poste ad aziende decisamente meno conosciute. Infatti, sulla base della direttiva del Ministro Saccomanni dello scorso 24 giugno, a fine gennaio il Dipartimento del Tesoro ha pubblicato la lista di tutti gli organi consiliari in scadenza nel 2014. Ce ne siamo accorti leggendo i giornali soprattutto perché, nella stessa occasione, sono state rese note, in base agli obblighi di trasparenza imposti dal decreto legislativo n.33 del 2013, anche alcune informazioni di base sulle società partecipate e gli emolumenti percepiti dagli amministratori relativi all’ultimo bilancio approvato (2012). Facile immaginare che, nel pieno del caso Mastrapasqua, sia stata soprattutto la colonna dei compensi ad attirare l’attenzione mediatica.

Ma in realtà lo sforzo di trasparenza, supportato dalla 6 pagine a firma di Saccomanni del giugno scorso che indicano criteri e modalità per la nomina dei vertici delle partecipate pubbliche, è molto più ampio e rappresenta un deciso passo in avanti sul passato. Si istituzionalizzano infatti il coinvolgimento di headhunter di rilievo internazionale nella selezione dei top manager, la possibilità di candidature spontanee, la pubblicazione dei curricula, una vera e propria istruttoria con tanto di valutazioni, e infine un bollino da parte di un Comitato di garanzia, costituito presso il Ministero con carattere di stabilità e di indipendenza dei suoi componenti (che oggi sono tre illustri pensionati, Cesare Mirabelli, ex Presidente della Corte Costituzionale, Vincenzo Desario, ex direttore generale della Banca d’Italia e Maria Teresa Salvemini, ex presidente della Cassa Depositi e Prestiti).

Tuttavia, ça va sans dire, il sistema andrà giudicato sulla base dei risultati ottenuti. Preoccupano soprattutto alcuni dettagli che si prestano a una pluralità di interpretazioni: ad esempio, non si capisce quale sarà il rapporto tra candidature spontanee e candidature d’ufficio (confluiranno in un processo di selezione congiunto o interverranno in stadi successivi o paralleli?), la pubblicità dei curricula sembra essere rimessa non solo alla disponibilità ma addirittura all’esplicita richiesta dei diretti interessati mentre nulla si dice a questo proposito sulla relazione di sintesi che illustra i criteri adottati e sui documenti di valutazione (che peraltro non sono obbligatori). Dietro queste aree grigie possono dunque nascondersi altrettante zone di sabotaggio della trasparenza impressa da decreto e direttiva dell’anno scorso. Nelle prossime settimane, occorrerà fare il massimo per eliminarle o comunque limitarle allo stretto necessario, se davvero vogliamo che i passi avanti non siano solo nelle intenzioni e nelle premesse ma anche e soprattutto nei risultati. Tanto più che la direttiva del Ministero nulla dice sui criteri di conferma degli attuali vertici. Non è un mistero e d’altronde è perfettamente legittimo che in molti sperino in una riconferma. Ma questa attesa si scontra fatalmente con l’ansia di cambiamento che pervade il Paese e, almeno a parole, anche la politica.

 In questo clima, per conciliare meritocrazia e aspettativa di discontinuità, occorrerebbe dunque individuare anche dei criteri, il più possibile sostanziali (=risultati ottenuti), per dare vita a quella che potremmo definire rottamazione meritocratica, che congedi chi non ha brillato e risparmi chi ha fatto bene.

 Per quanto riguarda le società quotate, l’impresa sembrerebbe piuttosto agevole. Si può guardare alla performance di Borsa del triennio (partendo nel caso di amministratori già riconfermati dal momento della prima nomina) e la si compari con un basket di imprese internazionali di settore (con un fattore di correzione che tenga conto di eventuali specificità nazionali). E’ giusto che chi sta sotto lasci il timone a chi potrebbe fare meglio di lui, specie con un processo di nomina migliorato nei suoi vari aspetti rispetto al passato.

Più problematica potrebbe essere la valutazione delle società non quotate. In alcuni casi si tratta di soggetti di mercato che dovrebbero quindi essere giudicati essenzialmente in base alla profittabilità (anche qui comparandola con un benchmark internazionale, tenendo opportunamente conto di eventuali fattori nazionali distorsivi), in altri usare solo o prevalentemente lo stesso criterio avrebbe molto meno senso (anche se un buon bilancio è sempre apprezzabile e, almeno in termini di trend, dovrebbe essere sempre un parametro di cui tenere conto).

 In ogni caso si tratta di esercizi da effettuare con urgenza massima. Metà aprile è già alle porte e ogni ritardo verrebbe pagato a caro prezzo in termini di strategie di medio termine, specie nell’attuale congiuntura. Ma fare presto non può significare confermare indiscriminatamente oppure altrettanto arbitrariamente buttare il malcapitato di turno giù dalla torre. Sempre se si vuole che il criterio del merito sia la stella polare da seguire d’ora in avanti.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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