Nonostante le numerose politiche energetico-ambientali assunte a livello mondiale e le diverse innovazioni che si tenta di introdurre nel mercato dimostrino che negli ultimi anni si stia diventando maggiormente sensibili ai temi ambientali, ora c’è una “nuova” tecnologia che potrebbe svilupparsi sempre più e confermare come il sistema energetico basato sui fossili stia tutt’altro che tramontando, ma, anzi, che proceda indisturbato lungo la strada dello sfruttamento delle risorse non convenzionali.
Si tratta della gassificazione sotterranea del carbone (Underground Coal Gasification, o UCG): una tecnica utilizzata per sfruttare riserve inaccessibili dando fuoco ai giacimenti di carbone per estrarne gas combustibili.
Il processo per ricavare il gas sintetico dal carbone è noto da molti anni; in particolare, tale tecnica è stata ideata oltre 150 anni fa in Germania per sfruttare giacimenti inaccessibili, perché molto profondi, posti sotto le città o sotto il mare. A metà del XX secolo è stato però abbandonato a seguito dell’abbassamento dei prezzi di petrolio e di gas naturale. Ora si pensa di reintrodurre questa tecnologia (ammodernandola e perfezionandola), vista la prevista diminuzione delle riserve mondiali.
Il processo di gassificazione sotterranea consiste nello scaldare fortemente il carbone con poca aria, per ricavarne una miscela composta di azoto, anidride carbonica, monossido di carbonio, metano e idrogeno. Questi ultimi tre gas, separati dal resto e dalla polvere, possono essere bruciati direttamente, oppure, come facevano i tedeschi durante l’ultima guerra mondiale, impiegati nell’industria chimica, per realizzare combustibili liquidi o altre sostanze di sintesi.
In pratica, basta scavare un pozzo che raggiunga la vena di carbone, dare fuoco al minerale, pompare aria per alimentare le fiamme, ed estrarre il gas di combustione da altri pozzi. Dosando attentamente l’aria immessa si può alimentare la combustione in modo che la temperatura resti intorno ai 1000°C e si inneschi la reazione fra anidride carbonica e carbone (trasformando quest’ultimo in monossido di carbonio), si produca idrogeno dalle reazioni con l’acqua e si liberi il metano contenuto nel filone.
Il punto di forza dell’utilizzo di questa tecnica è il fatto che gran parte delle riserve di carbone stimate sono considerate inaccessibili alle tecniche minerarie, e quindi estrarre tale risorsa con altre tecnologie permetterebbe di produrre abbastanza energia per alimentare il mondo per un millennio (e profitti in proporzione). Inoltre, in questo modo non sarebbe necessario estrarre il carbone fino alla superficie, riducendo di conseguenza tutti i rischi del lavoro di miniera.
Si introdurrebbero però nuovi rischi di carattere ambientale (gli stessi che provoca il fracking): la subsidenza del terreno che potrebbe generare attività sismica nella zona e la contaminazione delle falde acquifere. Ciò accade perché la combustione ad alta temperatura e il vuoto che si forma in profondità fratturano le rocce superiori per centinaia o migliaia di metri, permettendo ai fumi di infiltrarsi nel terreno e nelle falde, inquinandole.
C’è da chiedersi quindi se valga la pena continuare a sfruttare le tradizionali fonti di energia, anche sviluppando nuove tecnologie, oppure se percorrere la strada più virtuosa, investendo in fonti energetiche rinnovabili e green economy, che possa contrastare inquinamento, cambiamenti climatici e danni ambientali.