Recepimento della direttiva sull’efficienza energetica: giusta la direzione ma scarseggiano le risorse e il coordinamento tra istituzioni

Lungamente atteso da tutti i soggetti interessati, è approdato in Consiglio dei Ministri lo schema di decreto legislativo che recepisce la direttiva europea sull’efficienza energetica, approvata esattamente un anno e mezzo fa. Se il passaggio parlamentare e la successiva limatura finale del Governo saranno sufficientemente rapidi, l’Italia potrà rispettare la scadenza prevista di fine giugno e presentarsi con le carte in regole all’inizio del nostro semestre di presidenza. Che dovrebbe anche coincidere con l’avvio della fase di revisione della direttiva del 2012, sulla quale dovremo necessariamente dire la nostra. Meglio farlo avendo regolato i conti con il passato (e sperando che ciò sia sufficiente a rispettare gli obiettivi al 2020, che consistono in una riduzione dei consumi di energia primaria di 20 milioni di TEP).

Venendo ai contenuti, sicuramente condivisibili le norme previste sulla riqualificazione energetica degli immobili della Pubblica Amministrazione (art.5) e sulla creazione del Fondo nazionale per l’efficienza energetica (art.15). A lasciare forse perplessi sono le risorse stanziate (al massimo 55 milioni di euro l’anno nel primo caso e 50 milioni di euro l’anno nel secondo), con ogni probabilità insufficienti a finanziare gli interventi necessari. E’ vero che siamo in tempi di spending review ma evidentemente non si è ancora riuscito a spiegare alla Ragioneria generale dello Stato che i progetti di efficienza consentono, per il patrimonio immobiliare statale, risparmi maggiori rispetto ai costi dell’intervento, con un payback period non troppo elevato.  Certo, in questo senso non aiuta forse l’incertezza sulla possibile cessione ai privati di una parte del patrimonio oppure sul suo parziale passaggio agli enti locali (che potrebbe ridurre anche il denominatore rispetto al quale calcolare la soglia minima del 3% di immobili statali da riqualificare ogni anno). Ma un po’ di coraggio finanziario in più si poteva esibire, in attesa di allentare anche il patto di stabilità interno che vincola gli investimenti in efficienza energetica degli enti locali e sul quale il decreto non potrà evidentemente intervenire.

Il tema delle risorse, su scala decisamente più ridotta, torna anche negli interventi di informazione e formazione, elencati all’art.13 (ai quali si dà una dotazione massima di 1 milione di euro, un’inezia per risultare davvero capillari, anche perché includono un po’ di tutto, dall’educazione nelle scuole alla sensibilizzazione sia di imprese che di clienti domestici, dallo stimolo dei dipendenti della PA alla formazione delle professionalità incaricate degli audit e dell’installazione di elementi edilizi). Ma anche nei controlli assegnati all’Enea sulla conformità delle diagnosi realizzate dalle aziende alle prescrizioni normative, che sono su base campionaria nei confronti delle grandi imprese che si rivolgono a auditor esterni ma salgono al 100% per tutte le altre (art.8). Dato che le grandi imprese in Italia saranno anche poche rispetto alla massa delle PMI ma ammontano pur sempre a oltre 3.000 e immaginando dunque la necessità di alcune centinaia di controlli l’anno, è evidente che prevedere risorse aggiuntive per l’Enea al massimo pari a € 300.000 significa mettere i funzionari di fronte alla necessità di effettuare controlli formali più che sostanziali, con possibilità scarse se non nulle di verifiche in situ (che evidentemente sarebbero più che auspicabili).

Se, in questi casi, le principali obiezioni sono di carattere finanziario (troppe poche risorse assegnate ad azioni essenzialmente condivisibili), in altri l’articolato proposto entra a gamba tesa sull’attuale assetto regolatorio. A volte per colmare dei buchi evidenti, come nel caso del teleriscaldamento (art.10), finalmente normato con tanto di poteri assegnati all’Autorità per l’energia, il gas e il sistema idrico. Altre per chiedere modifiche non di poco conto proprio all’Autorità su meccanismi molto delicati e che meriterebbero forse un contesto diverso, come la disciplina del mercato elettrico e la progressività tariffaria (art.11), gli smart meter e la trasparenza delle bollette (art.9), tema quest’ultimo sul quale il Regolatore di settore sta lavorando da quasi un anno, con un documento in consultazione uscito poche settimane addietro. Anche se sulla fatturazione il momento è propizio proprio perché la partita non è chiusa e le previsioni contenute nello schema di decreto non sembrano così inconciliabili, rimane il sospetto di un’assenza di coordinamento che poteva essere evitata.

Tra l’altro, pur essendo condivisibile il fine di aumentare la consapevolezza del consumatore, prevedendo più informazioni e una maggiore facilità di accesso ai dati per questo e per terzi eventualmente da esso incaricati, appare discutibile che tutto ciò debba avvenire totalmente a spese delle aziende (ultimo comma dell’art.9), senza possibilità per queste ultime in altre parole di vendere almeno in parte questi servizi aggiuntivi. Il rischio è invece quello di ridurre ulteriormente per i venditori l’attrattività del mercato domestico e dunque di ridurre il livello di concorrenza sul mercato. Si ripropone più volte poi il tema della comparabilità delle offerte via un format standard della bolletta che, se oltrepassa pochi dati comuni per tutti (che potrebbero essere espressi nel quadro di sintesi ipotizzato dal documento di consultazione dell’Autorità), rischia di ingessare quello che dovrebbe essere lasciato all’autonomia delle parti, come ulteriore leva competitiva al di là del prezzo.

A proposito di un maggiore coordinamento inter-istituzionale, fa un po’ alzare le sopracciglia il tentativo di coinvolgere maggiormente le banche e gli istituti finanziari, attraverso “la messa a disposizione di dati ed esperienze di partenariato pubblico-privato” (art.13), nell’ambito delle previste iniziative di formazione e informazione. Se davvero c’è un problema di ingaggio del settore creditizio e finanziario (e sappiamo tutti che c’è), non lo si risolve in un provvedimento di rango governativo alla stregua di un organizzatore di convegni o di una società di consulenza. Occorre avere il coraggio di affrontare il problema di petto, con strumenti normativi specifici e, nel caso non siano reputati necessari o per evitare di incorrere in passi falsi, si costituisca un Tavolo ad hoc con le banche ed altri potenziali finanziatori di interventi di efficienza. Coinvolgendo magari Tesoro e Banca d’Italia che hanno un filo diretto quotidiano con istituti di credito e finanziari.

Insomma, la direzione del provvedimento è giusta ma, prima che lo schema presentato diventi norma primaria, gli andrebbe dato maggiore abbrivio con più risorse e un maggiore coordinamento tra istituzioni.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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