E’ facile fare ironia sulla numerologia del Governo Renzi, transitata in un baleno dai 100 giorni dell’esordio ai 1000 della maturità, necessari secondo il premier a realizzare le riforme di cui il Paese ha bisogno, dal lavoro al fisco, dalla pubblica amministrazione alla semplificazione normativa, per citare solo alcuni terreni sui quali si sta giocando la partita dell’esecutivo. Visto il fitto calendario di scadenze ravvicinate che il Governo si era dato all’inizio del suo ciclo di vita, può sembrare quasi un rinvio sine die. O, peggio, un tentativo di giustificare la permanenza alla guida del Paese oltre il semestre europeo. Ma, in realtà, chiunque abbia idea di come funzionino le cose in politica sa che un periodo di 3 anni (se alla clessidra dei 1000 giorni che comincerà a svuotarsi l’1 settembre aggiungiamo i 180 e rotti di inizio Governo) è il minimo indispensabile per cambiare davvero un Paese come l’Italia. Come dimostra anche l’esperienza del Governo Monti, senz’altro partito con le migliori intenzioni ma schiacciato dopo pochi mesi dalla prospettiva sempre più ravvicinata delle elezioni politiche (e dalle inaspettate ambizioni politiche di chi lo guidava).
Se la poco paziente politica italiana sarà disponibile a concedere a Renzi i mille giorni che chiede lo vedremo a tempo debito. Ma certamente, un primo importante bilancio potrà essere stilato al termine del semestre europeo, che il premier giustamente interpreta soprattutto in chiave domestica. Perché non c’è dubbio che, senza la flessibilità sulle regole di bilancio europee che dovrà passare in primis attraverso un’ applicazione decisamente morbida del fiscal compact, che rischia di scattare sui nostri conti pubblici come una mannaia a partire dal 2015, è difficile se non impossibile che si riesca a ritrovare il sentiero della crescita. Il Governo Renzi può fare tutte le riforme migliori del mondo ma se la pendenza della strada costruita dall’Unione Europea non si addolcirà (o addirittura diventerà ancora più estrema) rischia di essere fatica in gran parte sprecata. Non si tratta di trovare degli alibi ma di prendere atto di una semplice realtà. Con un total tax rate sui profitti pari al 65,8% (secondo i dati del Doing Business Report 2014 della Banca Mondiale), il 60% in più rispetto alle media OCSE (41,3%), che va sommato all’inferno burocratico e alla scarsa qualità dei servizi pubblici, le imprese italiane riescono a competere a livello internazionale con sempre maggiore difficoltà. E’ già un miracolo che in queste condizioni l’export abbia tenuto negli ultimi anni e anzi in molti casi sia risultato in crescita. Non si può però pretendere che una situazione eccezionale diventi una regola generale ma, semmai, cambiare le condizioni affinché non solo le migliori ma gran parte delle imprese siano in grado di competere al meglio in Italia e all’estero. Senza essere costrette a pensare alla propria sopravvivenza tra 6 mesi ma consentendole semmai di programmare la propria crescita a 6 anni.
Solo un piano di riforme serio ci potrà far guadagnare una maggiore flessibilità dell’Europa e, d’altronde, un rilassamento dei vincoli europei dovrà essere sfruttato non per alimentare la spesa pubblica ma per abbattere la zavorra che frena la capacità di competere delle imprese, unico vero motore della crescita italiana ieri, oggi e domani. Solo se queste due equazioni saranno lette in maniera appropriata a Bruxelles e a Roma, potrà essere risolta un’incognita fondamentale per il Governo Renzi e per l’esito della lunga corsa che vorrebbe apprestarsi a compiere.