Storia di un flop (annunciato?): We The People e la democrazia digitale fantasma

Sulla carta “We the People” è il più ambizioso progetto di democrazia partecipativa digitale in circolazione. In realtà si tratta di una iniziativa affossata dalla sua stessa ambizione. We the People è partito alla grande, registrando centinaia di proposte di petizione, tant’è che ha dovuto alzare la soglia di sbarramento (superata la quale, è bene ricordarlo, l’amministrazione si dichiara obbligata a rispondere). Ma poi, col passare del tempo, l’entusiasmo è venuto meno. In parte la maggiore difficoltà a raggiungere il limite minimo di firme, e in parte i tanti silenzi dell’amministrazione (evidentemente poco propensa a rispondere a petizioni palesemente campate per aria) hanno scoraggiato i potenziali partecipanti. Oggi gli analisti più smaliziati non esitano a definire We the People una “ghost town”, città fantasma. Da aprile a oggi ci hanno provato solamente in 85. Di queste, nessuna si è nemmeno vagamente avvicinata alla soglia delle 100mila firme. Anzi, la metà ne ha ottenute meno di 500. Nel merito, poi, Techpresident ha calcolato che il 40% delle petizioni presentate era chiaramente fuori dal mandato presidenziale. Per cui, anche qualora fosse stato raggiunto il quorum, non avrebbe prodotto altro che, nella migliore delle ipotesi, un secco diniego, e nella peggiore un silenzio imbarazzante.

Il confronto con i competitors è impietoso. Nel solo mese di aprile MoveOn e Change.org, due siti di petizioni online “privati”, hanno totalizzato rispettivamente 2053 e 7093 petizioni. Segno che non è lo strumento a essere vecchio o inutile, ma il modo in cui viene percepito dagli utenti. Un ulteriore dato a dimostrazione di quanto appena detto: da quando è stato creato We the People ha avuto 5,4 milioni di persone che hanno creato un account e 9,2 milioni di firme. Significa poco meno di 2 firme a utente. Il che, letto da un punto di vista più generale, significa che in media l’utente del sito si interessa sporadicamente a quello che accade sul sito. Gli esperti di marketing direbbero che non viene “fidelizzato”.

We the People non è tanto meglio dei siti italiani di petizioni online. Soffrono lo stesso problema, anzi, gli stessi due problemi. Il primo: per essere accattivanti devono promettere qualcosa. Cioè un vincolo di qualche tipo sull’amministrazione che consulta. Ma questa è una promessa che le amministrazioni finora non hanno saputo mantenere. Oppure hanno mantenuto solo in parte, perdendo credibilità. Il secondo problema è nella comunicazione. A differenza delle iniziative private che investono molto in comunicazione durante tutta la campagna, e anche dopo, i siti pubblici come We the People vivono di picchi. Generalmente sono comunicati al momento del lancio, e poi di nuovo verso la fine. Dopo se ne dimenticano tutti. E non c’è nulla di meglio (o peggio, a seconda di come la vediate) per allontanare il cittadino digitale. Con tutti i problemi che ci danno i servizi pubblici veri e propri, figuriamoci se abbiamo tempo da perdere dietro quelli digitali.

Direttore Area Istituzioni dell'Istituto per la Competitività (I-Com). E’ Professore in “Media, Activism & Democracy” presso la New York University – Florence, e Professore in “Global Advocacy” presso la Vrije Universiteit di Brussels.

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