Cambia la forma, si arricchisce con nuove funzionalità, va in rete, è in compagnia di altri device mobili, flirta con i social media: il nostro apparecchio televisivo non conosce crisi, si evolve grazie alle app e diventa smart. Questa nuova fase di rinnovamento rappresenta l’ennesimo atto di una rivoluzione che dura da anni e che tiene il passo dell’evoluzione tecnologica. Una rivoluzione che non pregiudica l’uso dell’apparecchio televisivo anzi moltiplica le modalità con cui questo viene guardato aprendo nuovi scenari sul fronte dell’offerta dei contenuti da parte dei broadcaster e dei fornitori di servizi audiovisivi on demand nazionali e gloabali.
Che la si guardi in maniera tradizionale, che se ne utilizzino le tante funzionalità di fruizione a richiesta o in differita, o che la si scelga per guardare video su Internet, è indubbio che guardare la tv continui ad essere il nostro intrattenimento domestico preferito. Non a caso il consumo televisivo continua ad aumentare – oltre 4 ore e mezza 34 minuti in Italia nel 2013, 4 minuti in più rispetto all’anno precedente, dato persino superiore alla media europea (3 ore e 55 minuti). Il televisore “connesso” sempre più frequentemente viene utilizzato per guardare video su Internet.
Finita l’era delle masse di spettatori che si adattano alla tv di palinsesto, oggi sono dunque i contenuti e i device da cui sono trasmessi a modellarsi sulla base delle esigenze degli utenti.
Ne risulta un consumo personalizzato, frantumato e social-oriented.
Chi guarda la tv oggi non si accontenta più dei vecchi programmi rivolti a tutti della televisione generalista di una volta (che comunque continua a resistere egregiamente), richiede una fruizione personalizzata, mentre sta svolgendo varie attività in multitasking. Ha probabilmente un tablet o uno smartphone con cui sta cercando informazioni sul programma che sta guardando, oppure sta controllando le mail o chattando con gli amici su una delle tante piattaforme di social network. Probabilmente starà commentando su Twitter in tempo reale quello che sta guardando in tv o starà condividendo qualche contenuto speciale correlato alla sua serie televisiva preferita.
Le trasformazioni radicali che stanno modificando il panorama mondiale dell’offerta e dei servizi sono dovute in particolare all’ingresso sul mercato degli OTT (Netflix, Hulu, Amazon…) che, attivi in tutte le fasi della filiera audiovisiva, dalla produzione alla distribuzione, stanno spingendo ad un riposizionamento degli operatori tradizionali, in particolare telco e broadcaster,i quali, vedendosi minare le posizioni acquisite in anni di dominio del mercato, sono costrette a rimodellare i proprio modelli di business – in particolare lato pay – in un ottica multimediale e flessibile.
Oggi è Netflix a fare scuola. Il gigante americano del video on demand, nato nel 1997 come servizio online di noleggio dvd e videogames, ha oggi 45 milioni di abbonati in tutto il mondo e un catalogo di 50 mila titoli. In Europa è presente in Gran Bretagna, Olanda e Paesi Scandinavi e presto sbarcherà in Francia e Germania. La sua espansione in Europa sta impensierendo non pochi broadcaster, che, anticipandone le mosse, stanno correndo ai ripari estendendo al web le proprie offerte di contenuti. Complice l’atteso boom delle smart tv e l’ulteriore espansione dei device mobili (tablet e smartphone) – tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 anche nel nostro Paese si potrà cominciare seriamente a parlare di matrimonio ufficiale tra web e broadcaster, dopo anni di timidi corteggiamenti e legittime diffidenze. Sotto la pressione di una platea di utenti sempre più esigenti e meno sprovveduti, i broadcaster nazionali sono finalmente usciti allo scoperto, abbondonando la fase di “elaborazione del lutto” dei propri palinsesti lineari e preconfezionati, per abbracciare in modo più convinto alle nuove forme di consumo audiovisivo non lineare e in mobilità. L’ingresso in campo di Mediaset e Sky sta ridisegnando un nuovo assetto del mercato nazionale delle offerte on demand presidiato da Timvision e Chili Tv, oltre che da alcuni operatori internazionali a partire da Apple I-Tunes, in attesa di Amazon, Yahoo e soprattutto Google/YouTube che di recente ha lanciato all’estero i suoi primi canali a pagamento. Va ricordato che una spinta decisiva alla diffusione di servizi legali on line potrebbe giungere – anche grazie all’approvazione dopo un lungo e tormentato percorso – del regolamento Agcom per la tutela dei contenuti on line. Il rischio maggiore per i broadcaster – che per la prima volta si misurano su un terreno che non ha confini nazionali o protezioni speciali – si gioca su una scommessa non più rinviabile: la necessità di conquistare nuova domanda (dirottandola verso offerte legali) presidiando in modo più robusto la rete senza perdere al tempo stesso una fetta di abbonati pay che potrebbero essere attratti dalle nuove library on line. Pur proponendo linee e contenuti editoriali differenti queste ultime in effetti risultano più immediate ed economiche da attivare, visto che non impegnano alla sottoscrizione e non obbligano all’acquisto di un device ad hoc. Si tratta di offerte che hanno il loro punto di forza nell’estrema flessibilità, bassi costi e nessun vincolo contrattuale.
Il mercato dei servizi audiovisivi continua ad essere dinamico più che mai grazie ai nuovi device, all’evoluzione tecnologica e all’ingresso di nuovi attori lungo tutta la filiera. All’interno di questo variegato mondo è possibile individuare alcuni driver di sviluppo che forniscono segnali chiari del processo in atto.
In primo luogo il subscription video on demand sta erodendo l’audience televisiva tradizionale, in particolare i modelli pay. Negli Stati Uniti vari network televisivi, tra cui HBO e Showtime hanno ridotto il bacino abbonati di sei punti percentuali in due anni. Parallelamente i servizi SVOD sul modello di quello di Netflix hanno aumentato gli iscritti del 4% (fonte NPD Group). Di conseguenza la penetrazione tra le abitazioni dotate di connessione a Internet si è ridotta dal 38% al 32% a favore delle compagnie che offrono servizi SVOD che hanno oggi una penetrazione nel mercato del 27% delle famiglie statunitensi connesse.
Netflix è leader sul mercato di questi servizi, ma della crescita appena descritta sembrerebbero essersi avvantaggiati soprattutto i competitor Hulu Plus e Amazon Prime, che lo scorso anno hanno rosicchiato al colosso di Reed Hastings rispettivamente il 2% e l’1% del mercato dei film visti online, poca roba considerato che il 90% della torta è saldamente nelle sue mani.
Tuttavia non tutti gli studi giungono alle stesse conclusioni. Una ricerca diffusa quasi contemporaneamente da The Diffusion Group ha messo in evidenza che quasi il 90% degli utenti di banda larga possiedono un abbonamento ad almeno una pay tv, tale percentuale sale nella fascia di età sopra i 35 anni. Lo studio dimostrerebbe in sostanza che le due offerte, al momento, possono continuare a convivere senza grossi problemi da entrambi i lati.
Una sfida non senza rischi, per i broadcaster, che dovranno competere in un mercato che supera i confini nazionali, allo scopo di conquistare una nuova fetta di mercato digitale, senza, allo stesso tempo, perdere terreno sul mercato dei rispetti abbonati ai pacchetti pay, che potrebbero essere attratti da offerte più economiche e meno impegnative del ramo online.
E’ sotto gli occhi di tutti la rivoluzione che sta mettendo seriamente in discussione gli equilibri economici che per anni hanno caratterizzato il mercato della produzione e distribuzione dei contenuti audiovisivi e i relativi modelli di business. A preoccupare maggiormente gli editori televisivi tradizionali è la questione del level playing field. L’ingresso nell’agone competitivo dei nuovi operatori della rete impone un ripensamento del quadro regolatorio comunitario fondato sulla direttiva sui Servizi Media Audiovisivi e che al momento tranne rare eccezioni prevede una serie di obblighi di investimento e di programmazione in opere europee solo a carico dei broadcaster tradizionali. L’interrogativo di fondo è valutare se e che in misura gli obblighi attualmente a carico dei player tradizionali per il finanziamento alla produzione cinematografica e audiovisiva siano applicabili ai nuovi player o se non sia preferibile un alleggerimento dell’intera cornice normativa ma su un piano di maggiore simmetricità. Senza parlare del cruciale problema della tassazione e dell’applicazione o meno del principio del Paese di origine.
Peserà sullo sviluppo del mercato dei contenuti on line anche il nodo delle licenze territoriali per la circolazione dei contenuti, altro driver di sviluppo del settore. Su questo tema è recentemente intervenuta la Commissione europea che ha avviato un’inchiesta per indagare su presunti impedimenti alla visione transfrontaliera causati da accordi di licensing tra emittenti europee e studios americani. Accordi che, impedendo l’acquisizione di clienti all’estero, porrebbero ostacoli alla concorrenza all’interno del mercato comunitario. L’indagine è volta a verificare se i criteri di esclusività su base territoriale con cui i contenuti audiovisivi sono ceduti in licenza agli operatori di pay tv, ovvero un unico broadcaster in ciascun Paese, violino la concorrenza all’interno del mercato comunitario. D’altra parte non è intenzione della Commissione chiedere alle major di contrattare una licenza unica per tutti gli Stati, dato che, cadendo le protezioni territoriali si metterebbero in crisi i meccanismi di valorizzazione e remunerazione dei diritti.
Gli esiti di questa inchiesta formale non sono da sottovalutare, poiché potrebbero modificare le attuali regole del gioco, che favoriscono i detentori dei diritti e le reti televisive, ma non certo gli utenti. Si tratta dunque di un segnale importante a tutela dei consumatori e del loro diritto di accedere a contenuti pay in qualunque parte d’Europa, a maggior ragione in un periodo in cui il mercato dell’audiovisivo volge sempre di più verso convergenza tra piattaforme e consumo personalizzato.
Niente di strano comunque che le grandi battaglie tra operatori mirino all’acquisizione dei diritti. Nell’ultimo anno Netflix aveva perso molti dei fornitori di contenuti che avevano contribuito all’aumento del numero di iscritti (in particolare le pay-tv Starz ed Epix), ma questo non ha scoraggiato i vertici dell’azienda, che lo scorso dicembre hanno messo a segno l’ennesimo colpo annunciando un accordo esclusivo che metterà a disposizione del portale alcuni dei classicidella Disney e, a partire dal 2016, anche le nuove uscite, nella finestra di rilascio applicata di solito alle pay tv. In altre parole nei 6-9 mesi successivi all’uscita in sala, gli abbonati al servizio avranno a disposizione i film di Walt Disney Animation Studios, della Pixar, della Marvel, di Disneynature (e presumibilmente anche della Lucas Film) in contemporanea con i grandi network e in esclusiva tra le piattaforme on demand. Ma Netflix non mira solo a acquisire contenuti mira anche a produrne di originali, strategia essenziale per restare in piedi un mercato sempre più affollato e competitivo. D’altra parte il CEO Reed Hastings non ha fatto mistero di voler competere con i grandi network statunitensi e costruire una propria identità di rete televisiva.
Un anno fa ha sottratto a HBO e AMC per 96 milioni di dollari i diritti della serie tv di successo House of Cards, di David Fincher, stravolgendo la logica dei palinsesti mettendo a disposizione del pubblico le 13 puntate contemporaneamente a cui vanno aggiunte Arrested Development (andata in onda su Fox per tre stagioni dal 2003 al 2006)la serie Hemlock Grovedal filmmaker horror Eli Roth e Orange Is the New Black, di Jenji Kohan.
Accorciando le finestre di rilascio competendo direttamente con la pay tv, sia nell’acquisizione che nella produzione di contenuti originali, il colosso statunitense darebbe un grosso impulso al cord cutting. Fenomeno che anche nell’evoluto mercato televisivo americano incontra resistenze dovute ai tentativi di lasciare invariati i tradizionali modelli di business, ostacolando, allo stesso tempo, la creazione di un’offerta legale di contenuti in rete. Resistenze che sembrerebbero legate non solo alla volontà di non intaccare gli introiti derivanti dalle attività tradizionali, ma anche alla reticenza di altri anelli della filiera come le telco. Basti pensare al contenzioso tra Netflix e Verizon sulla net neutralità risoltosi a favore dell’operatore telco che potrebbe determinare che i fornitori di rete intaschino una parte dei profitti dei fornitori di contenuti. Una resistenza che si traduce, tra le altre cose, in un impulso alla pirateria. Un esempio? “Game of Thrones”, serie esclusiva di HBO, che non è interessata a venderne i diritti online, con quasi 6 milioni di dowload è la serie più piratata del 2013.
Non è facile prevedere cosa succederà in futuro. Quel che è certo è che broadcaster, telco, OTT, costruttori di device si stanno muovendo in un’ottica convergente. Ne è la dimostrazione la discesa in campo di Verizon, che, acquisendo gli asset di Intel Media, si assicurerebbe un sistema di prodotti e servizi cloud-based e, provvedendo all’ottenimento delle necessarie licenze di proprietà intellettuale,potrebbe utilizzare la piattaforma OnCue di Intel. Nel Regno Unito Vodafone e BSkyB stanno pensando a far convergere i propri servizi per offrire ai propri clienti pacchetti comprensivi di tv, Internet e telefonia mobile e fissa. L’operazione, controffensiva di Vodafone nei confronti della crescita di BT sul fronte contenuti, potrebbe portare sulla banda larga ultraveloce dell’operatore telco i canali di sport e cinema di BSkyB.
E’ in atto una corsa da parte di tutti i soggetti in campo verso il controllo dei contenuti il cui reale valore è di difficile quantificazione: non si tratta infatti di valutarne semplicemente il budget o il costo di produzione ma di capire quando rende il loro sfruttamento prolungato nel tempo e sulle varie piattaforme.
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