Le troppe irrazionalità del disegno di legge sulla concorrenza

Se il Governo Renzi riuscirà a far approvare per la prima volta la Legge annuale per il mercato e la concorrenza, introdotta da una legge del 2009 e finora regolarmente disattesa, avrà già ottenuto un risultato importante, quantomeno a livello simbolico. Ma, visto che questo Paese non ha solo bisogno di cambiamenti simbolici ma soprattutto di riforme sostanziali, occorre chiedersi se il testo del disegno di legge sia adeguato alla sfida di rendere l’Italia più competitiva.

Intanto è interessante verificare cosa è dentro il provvedimento, che ricordiamolo dovrà passare il vaglio delle due Camere, e cosa è rimasto (almeno per ora) fuori. Non tanto rispetto ai gossip che si sono inseguiti fino alle ultime ore, prima che il disegno di legge governativo fosse approvato il 20 febbraio in Consiglio dei Ministri, ma confrontandolo con la segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che risale allo scorso luglio.

Se alcune riforme suggerite da Piazza Verdi hanno nel frattempo preso altre strade (ad esempio quelle dei provvedimenti che riguardano le banche popolari o la strategia digitale), i grandi assenti o i presenti fortemente ridimensionati rispetto agli stimoli dell’Antitrust sono soprattutto i servizi pubblici locali, i trasporti, i servizi postali e il settore farmaceutico. Settori che complessivamente, per rilevanza economica e per impatto sulla vita di cittadini e imprese, pesano decisamente di più rispetto al pur importante mercato assicurativo della RC sui veicoli a motore, al quale sono dedicati 14 articoli dei 33 del provvedimento (e quasi il 60% del testo). Uno squilibrio decisamente poco spiegabile su basi di scelta razionale. E che ci suggerisce come ancora una volta non si riesca a fare nel nostro Paese una serie analisi di impatto dei provvedimenti e delle relative misure, ovvero l’abc di interventi almeno potenzialmente efficaci.

I tre profili più interessanti e a nostro avviso più positivi del disegno di legge sulla concorrenza sono il ricorso a strumenti digitali (non solo nelle assicurazioni, con la cosiddetta scatola nera e altre forme di controllo elettronico, ma anche nei servizi bancari, con i siti di comparazione, nella telefonia, con la digitalizzazione delle procedure di switching, e perfino nel mondo superanalogico delle pandette, con la sottoscrizione digitale di alcuni atti), l’apertura alle società di capitali nelle professioni e nella distribuzione farmaceutica e l’enfasi su una migliore informazione precontrattuale, che riduca le asimmetrie tra le imprese e i consumatori nei mass market grazie a maggiori obblighi di trasparenza. E’ naturale che qualsiasi obbligo faccia storcere il naso ai liberisti ma non c’è dubbio che nel campo dell’informazione precontrattuale si possano così ridurre notevolmente i costi di transazione e i rischi di fallimento del mercato, oltre a minimizzare le distorsioni del mercato stesso e dei relativi esiti concorrenziali rispetto ad altre forme di intervento.

Più controverse appaiono altre norme, come ad esempio l’obbligo per gli istituti bancari e le società di carte di credito di assicurare l’accesso ai propri servizi di assistenza ai clienti a costi telefonici non superiori alle tariffe telefoniche urbane. Si intendono estendere dunque al settore finanziario gli obblighi già presenti e storicamente molto stringenti sul customer care in vigore in altri servizi, come l’energia o la telefonia. Di fatto finendo per condizionare e falsare la stessa concorrenza, che il disegno di legge dovrebbe invece rafforzare. Poniamo infatti ci siano due consumatori tipo, uno dei quali preferisce un mix di prezzi più bassi accontentandosi di un customer care scadente (o costoso perché sa che non si rivolgerà al canale telefonico) e un altro preferisce pagare di più per avere un customer care migliore (o meno costoso perché prevede di usare con frequenza il call center). Perché si deve ostacolare la libertà di scelta di queste diverse tipologie di consumatori, fingendo che i costi telefonici del servizio di assistenza vadano agli operatori telefonici e non a migliorare la qualità del customer care (o perfino, eresia estrema, i conti economici della banca, che tuttavia se il mercato funziona verrà punita dai propri clienti qualora offra un mix qualità-prezzo peggiore)?

Una legge sulla concorrenza dovrebbe appunto migliorare l’habitat normativo nel quale si fanno concorrenza tra loro le imprese, aumentando le possibilità di scelta che un sistema più competitivo permette anziché diminuirle. O azzerarle, come nel caso degli articoli 19, 20 e 21 che rinviano qualsiasi transizione dal mercato della tutela al mercato libero nell’energia elettrica e nel gas all’inizio del 2018. Se erano palesemente irrealistiche le scadenze di cui si era inizialmente parlato (entro la finestra compresa tra luglio 2015 e luglio 2016), ora il rinvio appare eccessivo. Si potrebbe tranquillamente anticipare di un anno il passaggio al mercato libero e prevedere un ulteriore anticipazione di 6 mesi per la fornitura di elettricità alle partite IVA e alle PMI. Certo, se poi si prevede, come nell’art.21 del provvedimento, di trasferire al Ministero per lo Sviluppo Economico le competenze oggi attribuite all’Autorità per l’energia elettrica il gas e il servizio idrico per creare le migliori condizioni possibili per il passaggio di tutte le classi di consumatori al libero mercato è evidente come questa transizione rischi di imboccare una strada incerta e con ogni probabilità più accidentata.

Il palleggio di responsabilità tra Ministero dello Sviluppo Economico e Autorità dell’Energia in questi ultimi quindici anni è un feuilleton davvero senza senso, che mina le ragioni stesse alla base di una regolazione indipendente e certa. E anche una delle troppe irrazionalità del ddl concorrenza. Che speriamo possano essere ridotte in Parlamento (in misura inversamente proporzionale all’irrobustimento del testo), magari su stimolo tardivo di un Governo che su altri temi ha saputo esercitare ben altra capacità prospettica (dal mercato del lavoro ai piani su banda larga e digitale).

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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