Strategia Banda ultralarga e crescita digitale, quando la PA pretende dalle imprese private quello che non è in grado di chiedere a se stessa

La Strategia italiana per la banda ultralarga, licenziata dal Consiglio dei Ministri del 3 marzo, insieme alla Strategia per la crescita digitale, afferma correttamente che l’attore principale per lo sviluppo delle infrastrutture digitali del Paese è il mercato e che l’intervento pubblico è sussidiario agli investimenti privati. Ma prevede, altrettanto giustamente, una serie di strumenti per monitorare il comportamento degli attori privati, punirli nel caso in cui non dovessero mantenere le promesse sugli investimenti annunciati, chiedere loro la restituzione degli eventuali extra-profitti qualora siano aggiudicatari di finanziamenti pubblici, adeguare la strategia in funzione dei risultati raggiunti, tutte azioni con impatto significativo diretto o indiretto sull’operatività aziendale. I paletti sono giustificati non solo dalla volontà di spendere bene i soldi dei contribuenti ma anche dall’aspettativa che digitalizzare il Paese, recuperando il gap che ci divide dal resto d’Europa, sia essenziale per il benessere dell’Italia del presente e soprattutto del futuro.

Se questa logica appare ineccepibile, anche per chi ha posizioni liberali ma aperte al confronto con la realtà sempre dinamica e diversa da caso a caso, si fa fatica a capire perché non ce ne sia traccia nel piano gemello sulla crescita digitale.

Se nella Strategia sulla banda ultralarga gli attori protagonisti sono le imprese private, in quella sulla crescita digitale sono con schema speculare le amministrazioni pubbliche. Con la differenza che nel primo caso stiamo parlando di un numero di player tutto sommato limitato, nel secondo la platea di soggetti attuatori è sterminata (per citare quelli ricompresi nello stesso piano, 8 Ministeri e Dipartimenti, 21 Regioni e province autonome, per non parlare degli ottomila Comuni e, aggiungiamo noi, degli infiniti enti e partecipate).  E’ per questo che, come avevamo scritto nel documento di risposta I-Com alla consultazione pubblica lanciata a fine 2014, la principale incognita della strategia digitale della domanda, imperniata sull’E-government, sta nella capacità dell’Agenzia per l’Italia Digitale e del suo punto di riferimento politico, che con giusta scelta è stato individuato direttamente nel Presidente del Consiglio, di mettere in scena con i tempi giusti e con la massima efficacia uno spartito con un numero elevatissimo di attori.

L’esperienza del Fascicolo Sanitario Elettronico, la cui implementazione è demandata alle Regioni, dimostra plasticamente il problema.

Innanzitutto nessun monitoraggio è possibile e tantomeno efficace senza statistiche aggiornate (quelle citate nel documento sulla crescita digitale sul Fascicolo Sanitario Elettronico risalgono nientemeno a un Rapporto pubblicato nel 2012). E’ dunque evidente come una prima questione essenziale per una strategia digitale di successo sia quella di assicurare all’AgID la possibilità di monitorare in tempo reale o quasi quanto stanno facendo tutte le istituzioni che stanno implementando il loro pezzo di agenda digitale. Senza monitoraggio non può esserci implementazione della strategia.

Inoltre, in base al Rapporto del 2012, emerge chiaramente una totale eterogeneità nella capacità/volontà delle Regioni di attuare il Fascicolo Sanitario Elettronico. Se nel 2012 già ne risultavano ben 6 milioni attivi in Lombardia, nella stragrande maggioranza delle altre Regioni italiane nella migliore delle ipotesi si era avviata semplicemente la sperimentazione. Basti pensare che solo il 13% della popolazione risultava dotata di fascicolo attivo (di fatto, a parte i lombardi, soltanto 1,2 milioni di toscani e 500 mila trentini).

Naturalmente la sanità è un caso particolare, viste le competenze regionali in materia, ma gli enti territoriali rappresentano la maggioranza delle amministrazioni. E in ogni caso, l’eterogeneità non riguarda solo le periferie ma anche il centro.

Come principio generale, senza stabilire un sistema credibile di sanzioni per le amministrazioni inadempienti (ed eventualmente di premi per quelle più virtuose), ci sembra difficile che l’implementazione del piano sulla crescita digitale possa procedere speditamente e soprattutto per tutte o gran parte delle amministrazioni coinvolte.

Per quale motivo non si è ritenuto di applicare alle amministrazioni pubbliche, mutati mutandi, lo stesso trattamento riservato alle imprese private attuatrici della Strategia sulla banda ultralarga? Forse i soldi spesi male o non spesi dalla PA sono meno importanti di quelli spesi male o non spesi dalle imprese private? Oppure si crede che ci siano criteri meritocratici naturali più sviluppati nel pubblico che nel privato? O, come forse è più probabile, che il pubblico non possa essere trattato con la stessa durezza applicata al privato?

Qualunque ne sia l’origine, la disparità di trattamento riservato alle imprese private e alle amministrazioni pubbliche nelle due Strategie parallele sulla banda ultralarga e sulla crescita digitale getta una luce sinistra non solo sull’implementazione della strategia per la crescita digitale ma anche sulla volontà di questo Governo di riformare davvero e in fretta questo Paese.  

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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