Digital Single Market, ovvero il vorrei ma non posso dell’Europa

Non si può negare che la strategia della Commissione europea per il Mercato Unico Digitale sia ambiziosa. La Comunicazione, pubblicata lo scorso 6 maggio, annuncia ben 16 azioni nel giro di poco più di un anno e mezzo, dall’audiovisivo all’e-commerce, dalle telecomunicazioni alla privacy, dallo spettro frequenziale al copyright. I benefici attesi sono pari a 415 miliardi di euro di prodotto aggiuntivo per l’intero continente, più o meno pari all’intero PIL dell’Austria o un quarto di quello italiano.

Al di là delle cifre, che pure hanno un loro appeal, traspare in modo evidente in tutto il documento l’ambizione dell’Europa di ritagliarsi un ruolo più importante di quello che attualmente riveste nell’economia digitale, sempre più subalterno agli USA e ormai seriamente minacciato anche dai player cinesi.

Se è difficile non essere d’accordo con gran parte dei contenuti della Comunicazione della Commissione, che pure contiene alcuni aspetti più controversi (ad esempio su temi di privacy e sulla regolazione dei prezzi di spedizione cross-border), la maggiore perplessità riguarda proprio l’interrogativo se bastino le azioni messe in campo dalla Commissione per far recuperare all’Europa il terreno perso rispetto ad altre aree del mondo. Per metterla in maniera più diretta (a costo di semplificare molto), ammesso e tutt’altro che concesso che si riesca a superare tutte le resistenze nazionali e ad abbattere davvero le barriere regolamentari e di mercato tra uno Stato Membro e l’altro, questo basterà per vedere nascere in Europa soggetti come Amazon, Facebook, Google, ecc.? O quantomeno a permettere quelle economie di scala agli “old player”, come Telco e TV, che possano permettergli di giocare una partita ad armi pari con le web company di cui sopra e tante altre che stanno arrivando o arriveranno nel prossimo futuro dagli USA? Peraltro, la stessa dinamica si sta registrando in settori considerati tradizionali, come l’energia e la mobilità. Investendo in pieno anche un’industria, l’automotive, dove l’Europa si considerava (e forse si considera tutt’ora) la prima della classe. Ma se si guardano gli elementi disruptive più interessanti già avvenuti o che presto arriveranno in questo settore, il futuro sembra soltanto a stelle e strisce (si pensi a Uber, Tesla e ancora Google ma anche qui c’è da scommettere che non mancheranno le sorprese con qualche altro newcomer statunitense pronto ad entrare in campo).

Intendiamoci, questi soggetti hanno portato e con ogni probabilità continueranno a portare enormi benefici ai consumatori europei (e dunque anche alle imprese, come testimoniano i numeri di un recente studio di Deloitte sui benefici di Facebook per l’economia globale, con risultati molto interessanti per l’Italia). Dunque, sbaglierebbe del tutto l’Europa se volesse usare il proprio potere d’interdizione, vedi gli strumenti Antitrust, come sembrerebbe suggerirgli perfino un autodichiarato liberale come Monti dalle colonne del Financial Times, non tanto a salvaguardia dei consumatori ma per colpire concorrenti sempre più temibili delle proprie aziende. E dunque non si può non condividere il tentativo sotteso alla strategia sul Mercato Unico Digitale di rispondere alla competizione estera, e in particolare statunitense, non tanto abbassando l’asticella regolamentare a mò di ghigliottina sulla testa di alcune grandi web company ma alzandola per tutte le imprese, grazie all’arma digitale. Che non deve riguardare solo le imprese che sono nate con il web ma deve pervadere molto più di quanto abbia fatto fin qui le aziende brick and mortar che costituiscono il tessuto più rilevante dell’economia europea. Basti pensare che, secondo i dati della Commissione europea, soltanto il 17% delle piccole e medie imprese dell’Unione Europea vendono online e solo il 7% lo fanno verso altri Paesi. I margini di miglioramento sono molto elevati e peraltro in Italia più che altrove.

Il principale difetto della Strategia è piuttosto quello di continuare ad avere un angolo visuale troppo ristretto (pur avendo allargato lo sguardo oltre singoli settori, come le telco o la tv, per abbracciare l’intero settore digitale). Se negli USA nascono Facebook o Google lo si deve infatti non solo e non tanto a un mercato unico molto vasto (che pure certamente può aver contribuito molto al successo di soggetti come Amazon che devono il loro successo al fattore logistico) ma all’esistenza di un ecosistema più favorevole all’innovazione, da poli universitari e di ricerca di eccellenza collegati al mondo delle imprese a un sistema finanziario in grado di traghettare più velocemente un’idea innovativa verso il mercato.

Si tratta di problemi molto noti e non facili da prendere di petto. Per farlo occorrerebbe affiancare come minimo al Mercato Unico Digitale e all’Unione dell’Energia, il Mercato Unico Finanziario e l’Unione della Ricerca. Ma se non si prendono neppure in considerazione queste ipotesi, si rischia di lavorare tanto e di ottenere poco. Anzi, l’eccesso di nuova legislazione rischia di creare maggiori incertezze e obblighi alle imprese, con un peggioramento complessivo della competitività europea. Proprio il contrario di quanto si proporrebbero di fare documenti in larga parte condivisibili ma con grandi dosi di velleitarismo come la strategia del Mercato Unico Digitale.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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