Una giornata (forse) memorabile per le TLC italiane

Si sa che gli ultimi giorni prima delle vacanze per molti sono traguardi naturali entro i quali provare a dare quell’allungo che nei mesi precedenti non era riuscito. Ma pochi avrebbero pensato che il 6 agosto del 2015 sarebbe stato il giorno in cui due dei principali nodi nei quali si era inviluppato negli ultimi anni il mercato italiano delle telecomunicazioni sarebbero stati sciolti, se non totalmente, almeno per un largo tratto.

Dal lato delle istituzioni, dopo alcuni mesi di stallo (a causa anche del serrato confronto inizialmente sottovalutato con la Commissione europea), il Governo ha finalmente sbloccato 2,2 miliardi di euro dei quasi 5 (per l’esattezza 4,9) che metterà sul piatto dello sviluppo della banda ultralarga, con l’obiettivo entro il 2020 di coprire il 100% della popolazione italiana, di cui la metà con velocità di connessione oltre i 100 Mbps.

Lato business, dopo anni di gossip, a volte fondato a volte inventato di sana pianta, su potenziali concentrazioni, è stata annunciata la fusione di due operatori di primaria importanza, Wind e 3 Italia, che insieme daranno vita (se l’operazione supererà il vaglio antitrust) al principale carrier mobile per quota di mercato, pari al 33,6% (contro il 32,3% di Tim e il 27% di Vodafone).  

Una volta detto della sorpresa per l’improvvisa e contestuale concretizzazione di due operazioni di cui molto si era parlato nelle ultime settimane e mesi ma che sembravano quantomeno rinviate a dopo le vacanze, occorre riflettere sulle possibili conseguenze.

La decisione del Governo di procedere all’implementazione del piano per la banda larga, a cominciare dalle aree a fallimento di mercato, è assolutamente apprezzabile. Anche perché nelle altre aree gli investimenti degli operatori privati (Fastweb, Telecom Italia e Vodafone) sono ripartiti e stanno procedendo speditamente. Bisogna fare dunque attenzione a intervenire con denaro pubblico laddove già operano diverse aziende private in maniera distorsiva oppure con minore efficacia rispetto a potenziali usi alternativi. Piuttosto, sarebbe utile che l’implementazione del piano possa procedere secondo criteri di massima trasparenza e secondo meccanismi di governance attentamente calibrati. Su questo c’è sicuramente da migliorare ed affinare. E d’altronde, senza queste condizioni di sfondo, i soldi che metterà lo Stato (comunque meno rispetto a quelli che dovranno essere investiti dai privati) non potranno fare la differenza. E non saranno in grado di proiettare l’Italia dalle posizioni di coda nelle quali si trova attualmente rispetto ai partner europei, come ha ammesso ieri lo stesso premier, al gruppo di testa nel quale dovrebbe ambire a stare (anche se appare francamente difficile immaginare che questo turnaround possa avvenire nel volgere di un triennio, come dichiarato ottimisticamente da Renzi).     

Sul fronte privato, la riduzione del numero degli operatori mobili più significativi da 4 a 3 porta l’Italia alla stessa latitudine di mercato di altri Paesi come Germania, Austria, Irlanda e, molto probabilmente, Regno Unito (se andrà in porto l’acquisto di O2 da parte di Hutchison Whampoa, proprietaria anche di 3 Italia). Di per sé non una garanzia di successo ma certamente l’indicatore di uno stato di malessere del settore dove le guerre dei prezzi degli scorsi anni hanno abituato il consumatore in tutta Europa a non attribuire il giusto valore agli investimenti in innovazione. Nonostante i successi di Wind e 3 Italia nell’acquisire quote di mercato significative e nell’impedire a Tim e Vodafone di dominare il mercato italiano (o proprio per questo motivo), i due rispettivi azionisti, la russa VimpelCom e la cinese Hutchison Whampoa, sono rimasti finanziariamente feriti dall’aspra battaglia. Tanto da aver messo nero su bianco nel comunicato nel quale hanno annunciato l’operazione che non intendono effettuare iniezioni di capitale nella joint venture paritetica che andranno a creare nei prossimi 12 mesi. Sperando che bastino i risparmi significativi derivanti dalla fusione (stimati già in 700 milioni di euro nel terzo anno dalla fusione) a far ripartire gli investimenti e a riportare le due compagini, oggi oggettivamente periferiche rispetto ai piani del Paese per la banda ultralarga nel fisso ma anche nel mobile, su una traiettoria più baricentrica rispetto a quella che il Premier ha definito ieri l’infrastruttura più rilevante dei prossimi 20 anni. Se questo accadesse (con o senza iniezioni di capitale) l’operazione annunciata ieri avrebbe tutti i crismi di una strategia industriale degna di questo nome. Altrimenti rimarrebbe solo un’operazione finanziaria certamente rilevante per gli azionisti ma di piccolo cabotaggio dal punto di vista del sistema Paese. Anche se oggi probabilmente è giusto vedere il bicchiere mezzo pieno, cioè il fatto che due grandi investitori esteri abbiano deciso di continuare a puntare sul mercato italiano. Nella probabile attesa che, dopo 3 anni, uno dei due compri la quota dell’altro. Possibilmente rivalutata rispetto agli attuali tempi di magra.   

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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