Un nuovo tentativo di quantificare l’impatto economico derivante dal surriscaldamento globale è stato compiuto di recente dall’Economist. E’ stato infatti pubblicato, lo scorso luglio, un rapporto dal titolo “The cost of inaction: recognising the value at risk from climate change”, in cui viene stimato, da qui al 2100, il danno, in termini economici, sia per il settore privato che per quello pubblico, del cosiddetto “rischio climatico”. La stima parla di una perdita, per gli investitori privati, di oltre 4.000 miliardi di dollari nella migliore delle ipotesi, nel caso, cioè, in cui si riuscisse a raggiungere l’obiettivo dei 2° C rispetto ai livelli pre-industriali. Ma si arriva addirittura a quasi 14.000 miliardi di dollari nel caso di un riscaldamento globale di 6o C. Non solo: i numeri crescono ulteriormente se si parla del settore pubblico, che ha – rispetto agli individui – tipicamente un orizzonte temporale di interesse di più lunga durata. Si parla, allora, di cifre che vanno dai 14.000 miliardi di dollari circa – nello scenario migliore – fino ai 43.000 miliardi in quello più pessimista.
Il rapporto sottolinea che, sebbene sia importante agire sul prezzo della CO2, non è questa la chiave risolutiva, ma che a giocare un ruolo centrale è piuttosto il mondo della finanza. La cosa più allarmante – ammonisce, infatti, l’Economist – è che ancora tanti, troppi investitori prestano attenzione quasi esclusiva al risultato di breve termine sottovalutando le conseguenze nel lungo periodo: secondo le stime di Asset Owners Disclosure Project, solo il 7% degli asset manager calcola l’impatto ambientale del proprio portafoglio di investimenti, e solo l’1,4% ne tiene conto al fine di ridurlo.
Eppure, opportunità (profittevoli) di tutelarsi da questo genere di rischi esistono. Se ne sono accorti il Fondo Pensione Nazionale Norvegese, che ha istituito un fondo da ben 6 miliardi di dollari investito per gran parte in energia alternativa ed efficienza energetica; il Fondo Pensione Pubblico Svedese ha disinvestito parecchie attività dalle società classificatesi tra le peggiori in termini di emissioni di CO2; ma anche colossi del settore assicurativo, quali l’anglosassone Aviva o la tedesca Allianz, stanno impegnando cifre di tutto rispetto in attività a ridotto impatto ambientale.
Anche i regolatori dovrebbero fare la loro parte, rendendo obbligatori per le società quotate il riconoscimento dei rischi legati al cambiamento climatico e la dichiarazione delle emissioni di CO2. Solo la Francia, tra i Paesi europei, si dimostra all’avanguardia in questo senso: è di pochi mesi fa il voto dell’Assemblea Nazionale volto ad introdurre l’obbligo, in capo agli investitori istituzionali, di fornire sia informazioni circa i fattori di sostenibilità dei propri criteri di investimento sia spiegazioni in merito alle modalità di misurazione delle emissioni e di riduzione dell’esposizione al rischio correlato.
Ma c’è bisogno che best practice come questa si trasformino in standard practice. Grandi aspettative sono riposte sulla Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP21), che avrà luogo a Parigi a fine anno e che potrebbe essere l’occasione giusta per i governi nazionali di coordinarsi e trovare una soluzione a questo fallimento di mercato.