Che Google sia il più grande centro media on line del mondo è ormai un fatto assodato. Circa il 90% del suo fatturato mondo – quasi 60 miliardi di dollari – è generato dall’advertising. Abbastanza evidente è anche la tendenza da parte degli operatori a spostare questo business sulle piattaforme mobili, come dimostra il progressivo trasferimento di utenti da parte di Facebbok dal desktop allo smartphone.
Ciò che ancora è poco chiaro sono le modalità di raccolta della pubblicità, a loro volta collegate al sistema di misurazione del traffico on line.
Una ricerca del Politecnico di Torino dimostrerebbe che Google carica sul conto dei propri inserzionisti anche le visite sui video di Youtube fatte dai cosiddetti “bot” computer che scandagliano la rete mascherandosi da normali utenti.
Ciò potrebbe provocare (o forse sta già provocando) un senso di sfiducia nei confronti di operatori che “se la cantano e la suonano” (Google come noto tiene segretissimi i suoi dati a livello di singoli territori, nonostante le richieste pressanti dell’Agcom), associato ad un evidente stato di inadeguatezza dei sistemi di misurazione di vecchi e nuovi media convergenti che sta mettendo a dura prova l’affidabilità delle rilevazioni. Lo dimostra lo scontro in atto tra i giganti internazionali del settore. Wpp ha accusato esplicitamente Nielsen di scarsa efficienza ed efficacia nella quantificazione degli ascolti, dichiarando di voler investire in altri soggetti (Rentrak e ComScore) maggiormente in grado di fornire agli inserzionisti dati più attendibili rispetto alle molteplici modalità di fruizione con particolare riferimento alla televisione.
Mente in Italia – dove le stime UPA Nielsen per il 2015 parlano di un ottimistico +1/2% – si discute dell’opportunità di introdurre speciali tassazioni sulla pubblicità on line sulla falsariga di quanto già fatto nel Regno Unito, la reazione allo straripante potere di Google (qui da noi avrebbe già superato il miliardo di ricavi, collocandosi al secondo posto dietro Publitalia) giunge proprio dal mercato sotto la spinta dell’innovazione tecnologica. Il nuovo sistema operativo per i dispositivi mobili rilasciato da Apple (iOs9) permette di utilizzare un software per il blocco dell’advertising sul mobile sul browser proprietario Safari.
Per la società di Cupertino si tratta di un sistema per utilizzare in modo più performante i propri dispositivi mobili (Iphone e Ipad) garantendo maggiore soddisfazione ai propri clienti.
Chi è meno soddisfatto sono ovviamente gli editori e i motori di ricerca, in primis Google mentre l’ad blocker di Apple farà meno danni a Facebook visto che sul telefono i suoi banner compaiono principalmente nell’app, mentre le nuove funzioni di blocco sono efficaci solo sui browser.
Secondo dati rilasciati di recenti (agosto 2015) da Adobe e PageFair sono quasi 200 milioni le persone che nel mondo gli utilizzano filtri anti-spot ed altri strumenti per nascondere i banner su internet rendendo la navigazione dei siti più rapida e pulita. Negli Usa il 40% ha fatto ricorso alle app di blocco (alcune sono gratis altre costano qualche dollaro).
Chi installa queste soluzioni lo fa per una percezione di abuso dei propri dati personali da parte di terzi non meglio identificati o identificabili e di una eccessiva ricezione di pubblicità in varie forme.
Lo IAB sta studiando soluzioni e azioni legali nei confronti delle case che producono filtri perché a loro avviso “interferirebbero con la capacità dei siti web di visualizzare tutti i pixel che sono parte del sito” (affermazione alquanto cavillosa…) e affermando che l’impiego di questi strumenti sta provocando un danno economico agli editori enorme, stimato in 22 miliardi di dollari, risorse destinate ulteriormente a crescere a seguito dell’introduzione del nuovo filtro magico della Apple. Forse sarebbe il caso di cambiare strategia e rispondere con la stessa lingua tecnologica studiando soluzioni per migliorare la visualizzazione della pubblicità facendo in modo che gli annunci non rallentino il caricamento delle pagine.
Insomma se il futuro della pubblicità sulla rete è incerto e si sta per decretare l’estinzione del banner, ben presto faremo la conoscenza (più o meno consapevole) di nuove più impercettibili forme di pubblicità frutto di ingegnose fusioni tra contenuti con finalità commerciali e contenuti redazionali. Secondo alcuni esperti, ora c’è il serio rischio di dover pagare la maggiore velocità di navigazione sui dispositivi mobili con una più sottile e pervasiva somministrazione di pubblicità. Dalla padella nella brace ?