Ma non stavamo andando verso la decarbonizzazione?

immagineNonostante l’inesorabile calo di elettricità generata dal carbone, l’industria sembra non recepire il messaggio e continua ad investire come se di fronte vedesse un futuro roseo: secondo quanto emerge dal nuovo report di Sierra Club, Greenpeace, e CoalSwarm, “Boom and Bust 2016: Tracking The Global Coal Plant Pipeline”, sono 338, nel mondo, i GW di nuova capacità in costruzione e 1.080 quelli che si trovano al momento in diverse fasi di progettazione – 1.500 impianti a carbone, in altre parole. Eppure, la realtà mostra tutt’altro: ciò che si vede è solo un crescente overbuilding. Il problema è particolarmente serio in Cina, dove solo nel 2015 sono stati installati quasi 50 GW di nuova capacità, praticamente il 58% dei complessivi 84 GW installati a livello mondiale nel corso del 2015 (+25% rispetto all’anno precedente). Per renderci conto dell’ordine di grandezza, l’installato in Cina nell’ultimo anno è stato tre volte la nuova capacità installata dagli Stati Uniti negli ultimi sei anni.

Questo approccio alle scelte di investimento sta provocando, come naturale e diretta conseguenza, un crollo del tasso di impiego degli impianti, che appare particolarmente basso per la Cina – ormai gli impianti vengono utilizzati, in media, solo per la metà del tempo – attestandosi, appunto, su un valore pari al 49,4% (il più basso dal 1969), che scenderà, stando alle proiezioni per il 2016, ulteriormente al 45,7%. Non si può certo dire, però, che si discosti molto da quello europeo che, anzi, ha raggiunto negli anni passati livelli anche inferiori (come il 46% del 2010). E questo nonostante si rilevi anche una contestuale tendenza alla dismissione di impianti a carbone, grazie soprattutto alle dismissioni che stanno avvenendo in Europa e negli Stati Uniti, tentativi evidentemente però ancora troppo timidi per poter controbilanciare l’overbuilding: a livello mondiale, infatti, le dismissioni rappresentano solo un quinto delle nuove installazioni.

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Gran parte dell’overbuilding viene spesso giustificato con l’intenzione di costruire nuovi impianti più efficienti di quelli vecchi. Tuttavia, non pare sufficiente a spiegare, da un lato, il vincolo che pone, creando una situazione di lock-in in impianti molto grandi e con un’elevata vita utile (e che sembra contravvenire abbastanza con la necessità/volontà di decarbonizzare il settore energia) e, dall’altro, il consistente esborso di denaro che simili investimenti richiedono: si parla di un investimento di quasi 1.000 miliardi di dollari, praticamente in stranded asset, ossia asset che non si ripagheranno, e che anzi probabilmente avranno il solo effetto di accelerare la crisi dell’industria del carbone. Suona un po’ paradossale, soprattutto se si considera che, secondo quanto stimato dalla IEA, con solo i due terzi di quell’importo si potrebbe garantire, investendo in generazione distribuita, off-grid e microreti, l’accesso all’energia a quegli 1,2 miliardi di persone per i quali l’energia è ad oggi ancora un bene di lusso.

Research Fellow dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata all’Università Commerciale L. Bocconi in Economia, con una tesi sperimentale sull’innovazione e le determinanti della sopravvivenza delle imprese nel settore delle telecomunicazioni.

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