È caldissima la vicenda che vede protagonista Apple a seguito della decisione della Commissione europea che ha riconosciuto l’illiceità dei benefici fiscali garantiti dall’Irlanda all’azienda di Cupertino. La Commissione Ue, in particolare, può chiedere di recuperare aiuti di stato illegali per un periodo di 10 anni retroattivo a partire dalla prima richiesta di informazioni inviata alla Apple, che è avvenuta nel 2013, con la conseguenza che Apple dovrà rimborsare all’Irlanda la cifra record di 13 miliardi di euro in imposte arretrate. La risposta di Apple e dell’Irlanda non ha tardato ad arrivare concretizzandosi sempre più l’ipotesi di un ricorso dinanzi alla Corte europea nel tentativo di paralizzare la decisione della Commissione.
Sono diversi i rilievi formulati sia dall’azienda che dall’Irlanda, molte le preoccupazioni che si accompagnano a tale decisione. L’Irlanda, in particolare, fonda le proprie contestazioni sull’asserita violazione da parte della Commissione della propria sovranità in materia di tassazione facendo leva, altresì, sul rischio di perdita di migliaia e migliaia di posti di lavoro che attualmente Apple garantisce nel suo quartier generale di Cork. A rispondere a tali rilievi la Commissaria Ue alla concorrenza Margrethe Vestager la quale sostiene il principio secondo cui qualsiasi società deve pagare le tasse nel paese dove genera profitti, contestando l’accordo fiscale con l’Irlanda che avrebbe consentito alla Apple di pagare imposte di appena l’1% sui profitti Ue nel 2003, scese allo 0,005% nel 2014.
In attesa di conoscere gli ulteriori sviluppi della vicenda, la Commissione Ue non molla la presa e rilancia l’idea di una base imponibile comune ripartendo dalla proposta sulla Common consolidated corporate tax base (Ccctb), ferma dal 2011, ma che tra ottobre e metà novembre prossimi dovrebbe riprendere il proprio cammino in una forma aggiornata. Il cronoprogramma della Commissione prevede innanzitutto l’individuazione di una definizione comune di profitti tassabili e, successivamente, l’elaborazione di una formula che consenta, con criteri matematici che tengano conto di vari aspetti tra cui la grandezza dell’azienda multinazionale, il numero di lavoratori, il tipo di attività delle filiali etc.., di tassarli in modo equo nei diversi Stati Ue. La previsione di una base imponibile comune non inciderà, tuttavia, sui sistemi di aliquote che ciascuno stato continuerà a determinare autonomamente.
Siamo dunque di fronte al tentativo della Commissione di avviare un processo di armonizzazione in un settore caratterizzato da elevate differenziazioni che rischiano di spianare la strada al dumping fiscale. È chiaro però che tale tentativo di armonizzazione non potrà non tenere conto della necessità di rispettare la sovranità degli stati in materia fiscale e di garantire quella certezza del diritto indispensabile per non determinare la fuga degli investimenti stranieri. Si tratta, dunque, di predisporre regole chiare e certe quanto più possibile condivise che garantiscano equità fiscale ma al contempo non disincentivino gli investimenti delle multinazionali in Europa e non minino la solidità dei rapporti tra Europa e Stati Uniti. Si tratta di un’impresa ardua, speriamo non impossibile.