Piano Industria 4.0, le differenze rispetto alle politiche industriali del passato e 4 consigli per aumentarne le chance di successo

Nella sua discontinuità con le politiche industriali del passato, il Piano nazionale Industria 4.0 del Governo, presentato dal Premier Renzi e dal Ministro Calenda lo scorso 21 settembre, riesce a realizzare un apparente miracolo: un’ambizione non comune (e, riforma costituzionale a parte, senza molti eguali negli ultimi anni) e un quadro coerente e completo di misure tecnologicamente neutrali.

Un approccio per intenderci del tutto diverso da quello di Industria 2015, l’ultimo tentativo ambizioso di fare politica industriale in Italia. Correva l’anno 2006 e il Ministro dello Sviluppo Economico dell’epoca era un certo Pier Luigi Bersani. Il quale si era esercitato, peraltro con un processo e una metodologia molto seria e rigorosa, ad individuare alcuni settori di punta per l’industria italiana del futuro e a finanziare progetti di innovazione pubblico-privati con bandi tematici. Peccato che l’implementazione, in gran parte lasciata in eredità al successivo Governo Berlusconi, sia stata, senza troppi eufemismi, un sostanziale disastro. Progetti selezionati sulla base di criteri opachi e da commissioni non sempre all’altezza e che brillavano per scarsa o nulla indipendenza dalla politica e, ultima stazione nella via Crucis di Industria 2015, erogazione dei finanziamenti ai progetti vincitori avvenuta con anni di ritardo. Fatto sta, parecchie centinaia di milioni di euro buttati al macero.

Sarà stata anche un’implementazione sbagliata di una strategia giusta, fatto sta l’attuale Governo sembra aver fatto pienamente tesoro dei risultati deludenti non solo di Industria 2015 ma anche degli altri tentativi fallimentari o quasi fatti in passato sia in Italia che in altri Paesi (si pensi soprattutto alla Francia). Proponendo un approccio basato soprattutto su tre elementi che lo differenziano dai precedenti: un focus massimo sui fattori di contesto (si pensi alla banda ultra larga e soprattutto al tema delle competenze ma anche alla finanza per l’innovazione), un largo ricorso alla defiscalizzazione piuttosto che alla spesa pubblica (con meccanismi di finanziamento dunque automatici e non discrezionali) e il ruolo comunque del tutto preponderante degli investimenti privati, che oltre a far risparmiare lo Stato, riduce fortemente il rischio di sprechi.

Se la filosofia retrostante e l’architettura complessiva del piano appaiono del tutto condivisibili, ora spetterà alla fase di implementazione decretarne il successo. La responsabilità di un eventuale insuccesso non ricadrebbe solo sul Governo ma anche sulla classe imprenditoriale. Bene ha fatto il governo a delineare un sistema di governance che nella cabina di regia, oltre alle tante amministrazioni coinvolte, include le principali associazioni d’impresa (Confindustria e Rete Imprese Italia). E prevede un vero e proprio road-show nei territori per far conoscere il piano e i possibili benefici per le imprese, accompagnato da una campagna di awareness che coinvolgerà anche i media.

Nel giudizio largamente positivo sul Piano nazionale Industria 4.0, rileviamo almeno 4 buchi neri o quantomeno aree in penombra che occorrerebbe riportare alla luce quanto prima, a nostro avviso, se si punta a un’attuazione di successo.

Ben tre riguardano la governance.

L’assenza (per ora) di una consultazione pubblica rappresenta un potenziale limite. E’ condivisibile l’ansia di fare, visto che l’Italia arriva a una strategia sulla digitalizzazione della manifattura con qualche anno di ritardo sui principali Paesi competitor, in gran parte responsabilità del predecessore dell’attuale Ministro dello Sviluppo Economico. Ma il coinvolgimento aperto e trasparente di tutte le voci che hanno voglia di dire la loro deve essere un must per tutti i piani e le strategie di un Governo. Peraltro avrebbe certamente semplificato e probabilmente resa meno costosa a parità di rendimento l’azione di awareness.

Inoltre, dopo tutti gli errori di politica industriale compiuti in passato, sarebbe necessario dotare la strategia di strumenti di valutazione ex post che intervengano il più rapidamente possibile anche per istruire eventuali correzioni di rotta, sulla base di analisi dettagliate e complete. Il primo passo (ancorché non sufficiente se non accompagnato da ulteriori misure) sarebbe prevedere un rapporto annuale sull’attuazione del piano Industria 4.0.

Sempre sulla governance, è fondamentale il ruolo che la cabina di regia pubblico-privata eserciterà internamente ma anche quello che saprà proiettare all’esterno, soprattutto in ambito europeo, a difesa degli interessi italiani, che poggiano su una interoperabilità più ampia possibile di standard e protocolli tecnici e su modelli open source.

Infine, il tema dei criteri di scelta dei competence center e degli innovation hub. È del tutto condivisibile evitare una dispersione di risorse, in una tipica logica di finanziamenti a pioggia (un altro limite storico dei finanziamenti alla R&S in Italia), e dunque immaginarne un numero ristretto, ma tanto più se questa è la scelta strategica occorre che la selezione sia la più trasparente e oggettiva possibile. In questo senso, può essere ravvisato un conflitto di interessi in nuce nella presenza nella cabina di regia di università certamente di eccellenza ma che non esauriscono le competenze sul tema presenti in Italia.

Come è certamente apprezzabile il principio della neutralità tecnologica, rivendicato giustamente dal Piano nazionale Industria 4.0, ci permettiamo di suggerire anche quello della neutralità accademico-scientifica. Principio che richiederà certamente più sforzi ma che nel lungo periodo può portare frutti migliori.

Presidente di I-Com, Istituto per la Competitività, think tank che ha fondato nel 2005, con sede a Roma e a Bruxelles (www.i-com.it). Docente di economia politica e politica economica nell’Università Roma Tre.

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