L’ingresso di Amazon Prime Video in Italia e la crescita della pubblicità on line

Amazon vs netflixSi fanno sempre più insistenti le voci di un ingresso nel nostro mercato da parte del servizio Amazon Prime Video. L’Italia insieme alla Spagna è l’ultimo grande Paese dove il colosso dell’e-commerce non ha ancora portato il suo servizio on demand. Dunque è lecito attendersi una nuova accelerazione della fruizione di contenuti audiovisivi on line, dopo lo sbarco di Netflix nell’ottobre 2015. Il prezzo, guardando all’offerta nei Paesi dove è già disponibile (Regno Unito e Germania, per esempio), dovrebbe essere leggermente più basso di quello di Netflix, attestandosi a 7,99 euro.

Leader dell’eCommerce e primo concorrente mondiale di Netflix nello SVOD, Amazon ha deciso di espandersi a livello internazionale nel settore dei portali video proponendone uno per molti aspetti simile a YouTube.  Lanciato a maggio del 2016, Amazon Video Direct combina tutti i principali modelli di business, dall’hub gratuito e finanziato dall’advertising fino allo streaming ad abbonamento o al noleggio del singolo contenuto, con la chiara intenzione di affermare la presenza del brand di Jeff Bezos in ogni ambito dell’audiovisivo connesso. La prima grande novità risiede nell’apertura della piattaforma a tutti i creatori, che iscrivendosi sul sito avranno la possibilità di caricare i loro video in maniera totalmente gratuita e con la possibilità di guadagnare il 55% degli introiti pubblicitari, esattamente come già avveniva per gli utenti della piattaforma rivale di Big G. Non si tratta però dell’unica opzione lasciata agli utenti, che potranno anche scegliere di vendere o noleggiare i loro contenuti singolarmente, di offrirli all’interno di un abbonamento o addirittura di farli entrare nella ben più ampia library SVOD di Amazon-Prime, principale avamposto del brand nell’audiovisivo connesso. Infine, per promuovere il nuovo servizio, il colosso dell’eCommerce ha anche previsto un programma chiamato AVD Stars, volto a premiare i 100 migliori creatori del portale tramite un fondo mensile da 100 milioni di dollari.

Naturalmente è ancora troppo presto per stilare un bilancio dell’iniziativa, soprattutto considerando come per ora Amazon abbia rilasciato solo dati generici che parlano di “svariati miliardi di ore di streaming” consumati dagli utenti del portale dal momento del lancio. Più evidente appare, invece, la prevalenza di prodotti confezionati professionalmente, come quelli della casa cinematografica – per quanto di piccole dimensioni – Samuel Goldwyn Films, produttrice di 10 su 50 dei film risultati più performanti negli scorsi mesi e dunque premiati dal programma AVD Stars. Un trend che sembra per ora allontanare la minaccia al primato di YouTube quale piattaforma di UGC (user generated content), ma comunque esemplificativo delle nuove sfide che già si pongono sulla strada dei disruptor digitali. Dopo aver scardinato i tradizionali modelli di business, anche i giganti del web si trovano a dover affrontare una fase non scontata di consolidamento, in cui gli equilibri non sono da dare per scontanti. Ne è dimostrazione il declino finanziario di Yahoo, ora in trattative per l’acquisizione da parte del provider di fibra Verizon per un totale di 4,8 miliardi di dollari, ma anche la stagnazione finanziaria di Twitter, colpita dalla scarsa crescita nel numero di utenti e possibile preda di OPA da parte di un’altra big della Silicon Valley come Salesforce, dopo l’apparente ritiro delle offerte da parte di Google e Disney. Il caso della piattaforma di micro-blogging risulta particolarmente interessante, in quanto speculare rispetto all’avanzata di Facebook, arrivato a 1,7 miliardi di iscritti contro i 313 milioni di “cinguettanti”. Se il social network da 140 caratteri è stato tra i primi a cogliere le potenzialità del video, tramite l’app per montare mini-filmati in loop da 6 secondi Vine (che nel frattempo è stata chiusa) e quella per le dirette in streaming Periscope, quello di Zuckerberg è riuscito a valorizzare maggiormente questo tipo di contenuto, tanto agli occhi degli utenti quanto degli inserzionisti pubblicitari, agendo sull’algoritmo e aumentandone l’effetto di amplificazione. Allo stesso tempo ha ampliato il business assorbendo Instagram, Whatsapp e Oculus, sostenendo così la propria vision e immagine di azienda attiva non solo nel campo dei social network ma capace di entrare in ogni ambito della vita connessa. Così facendo è riuscita anche ad accelerare nella competizione con Twitter superando il concorrente sul suo stesso terreno. Ad aprile 2016 ha fatto il suo debutto Facebook Live, che promette di dare filo da torcere a Periscope, nonostante i 10 milioni di utenti raggiunti in poco più di un anno e i 100 milioni di session live già trasmessi in streaming tramite l’app di Twitter.

Tornando al possibile ingresso del servizio di Amazon in Italia un’altra sfida è rappresentata dalla ricchezza e freschezza del catalogo proposto e dai contratti che verranno stipulati con gli attuali detentori dei diritti di distribuzione di opere prodotte da Amazon. Ci sono infatti tre serie già vendute da Amazon in Italia, in assenza della sua piattaforma: Tranparent e Mozart in the Jungle, a Sky Atlantic, e Bosch a Mediaset Premium. Il destino delle prossime stagioni di queste serie dipenderà proprio dalla natura dei contratti e dalla possibilità che possano migrare sul servizio della casa madre. La partita per uno spazio di mercato in Italia si giocherà anche sulle nuove seriecome quella firmata da Woody Allen o serie già prodotte e molto seguite come Red Oaks, The man in the high castle, inedite per l’Italia e che potrebbero invece essere un ottimo veicolo promozionale per lanciare il servizio Prime quando sarà attivo.

Parallelamente alla guerra sulla crescita di utenti, si svolge quella su un altro fronte fondamentale come quello della pubblicità. Nel 2015 anche l’Europa ha visto il sorpasso della raccolta digitale su quella televisiva, con 36,4 miliardi di euro contro i 33,3 miliardi investiti sul piccolo schermo (fonte IAB). Un incremento pari al 31% anno su anno, che ha permesso anche al Vecchio Continente di compiere il giro di boa già avvenuto negli USA nel 2013. Nel complesso si tratta di 30 miliardi di euro guadagnati in 10 anni, con una CAGR del 20,9%.

In un simile contesto di espansione generalizzata, il segmento video ha registrato nel 2015 una performance migliore della media del comparto, incrementando la propria raccolta online di 35,8 punti percentuali e raggiungendo la somma di 2,3 miliardi di euro. Da sottolineare come l’Italia si collochi tra i 5 top spender dell’advertising video online, con 242 milioni di euro investiti nel 2015, nonché addirittura al primo posto in termini di incremento anno su anno, con un +128,5% che la pone di circa 4 volte avanti alla media europea. Le ragioni dell’esplosione di questo formato, secondo il parere dello IAB (Internet Advertising Bureau) che ha elaborato i suddetti dati, sono facili da individuare: i brand hanno necessità di posizionarsi laddove gli utenti fruiscono dei contenuti online e questo avviene sempre di più tramite il mezzo dei video. Tale segmento è giunto perciò a contare in Europa per il 16,7% del ramo display, il più consistente della raccolta online, ma date le dimensioni ancora contenute dell’investimento totale, si può anche immaginare che il risultato continui a migliorare nei prossimi anni.

Dando uno sguardo al contesto internazionale, secondo il Global Entertainment & Media Outlook elaborato come ogni anno da Pwc, il 2016 sarà l’anno in cui l’advertising sul web supererà quello della tv a livello mondiale . Negli USA la portata del fenomeno è tale che si è già espansa a un altro comparto fondamentale della pubblicità online come i social network. È senza dubbio vero che i colossi del web non forniscono tendenzialmente un break down dei loro ricavi per formato dell’advertising e risulta perciò difficile scorporare il risultato dei soli video online, o ancor più cercare di geolocalizzarne la performance. Si tratta comunque di un confronto che dà la misura degli interessi in gioco e della sfida posta dai disruptor digitali non solo ai broadcaster tradizionali, ma anche ai concorrenti che cercano di superare la difficile fase del consolidamento dopo la rapida scesa nel sempre più competitivo mercato dell’intrattenimento connesso.

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