L’accordo OPEC ha sortito i suoi effetti: i prezzi sono in crescita rispetto a qualche mese fa.
La notizia arriva dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) che, nell’ultima edizione del World Economic Outlook (WEO) April 2017 presentato un paio di settimane fa, dedica un approfondimento sulle quotazioni del barile.
Lo scorso 30 novembre i Paesi facenti parte dell’OPEC – l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio – hanno concordato una riduzione della produzione di greggio a 32,5 mbd (milioni di barili al giorno) per sei mesi a partire da gennaio 2017 – che vuol dire un taglio, rispetto ad ottobre 2016, di 1,2 mbd. Pochi giorni dopo, alcuni Paesi, membri e non dell’OPEC, si sono incontrati a Vienna ed hanno concordato ulteriori tagli, per un totale di circa 0,6 mbd: la Russia (che non fa parte dell’OPEC) si è fatta carico di metà di quest’obiettivo, impegnandosi a ridurre la propria produzione di petrolio di 0,3 mbd, mentre la restante metà spetta ad altri 10 Paesi non-OPEC.
Come conseguenza di questi accordi, il prezzo del barile è subito schizzato oltre i 50$, un livello atto a stimolare gli investimenti, finalmente previsti in crescita nel 2017, dopo due anni consecutivi di significativo calo. E secondo il FMI il prezzo medio rimarrà intorno a 55,2 $/barile nel 2017, segnando un incremento di quasi il 29% rispetto alla media dei dodici mesi precedenti, per poi portarsi a 55,1 $/barile nel 2018.
Tuttavia, l’efficacia di questi accordi rischia di essere – quantomeno in parte – compromessa, da un lato, dall’aumento della produzione di shale oil da parte degli Stati Uniti e, dall’altro, dall’incremento produttivo avvenuto invece in Libia, Paese che non è parte dell’OPEC e che pertanto è stato esente dall’accordo siglato. A ciò si aggiunga che, stando ai dati IEA dello scorso gennaio, solo pochi Paesi sembrano essersi attenuti a quanto concordato lo scorso novembre, il che appare alquanto deludente viste le premesse. La IEA stessa prevede, invece, un ulteriore rallentamento della domanda per il 2017 – a circa 1,4 mbd, che rimane però sempre al di sopra del trend, stimato in 1,2 mbd. Se la domanda dovesse effettivamente rimanere alta, questo, unito ad un taglio significativo dei livelli produttivi, potrebbe portare il settore da una situazione di surplus ad una di deficit entro la prima metà del 2017. Tuttavia, il timore diffuso è che la ripresa degli investimenti americani nel settore dello shale vanifichino questi effetti e riportino il mercato del petrolio immediatamente, entro la fine dell’anno, nuovamente in una condizione di oversupply. Molto insomma dipenderà dalle scelte degli Stati Uniti, dove è concentrata la stragrande maggioranza delle riserve attualmente esistenti di shale oil, oltre 7 mbd dei complessivi 8 scarsi.