Come cambia il box office italiano nell’era dello streaming. Le anticipazioni di uno studio Censis


Articolo
Bruno Zambardino

Secondo gli ultimi dati rilasciati da Cinetel, che rappresenta circa il 92% del totale delle presenze e il 94% degli incassi dell’intero mercato sala, il box office italiano del 2018 ha incassato 555,4 milioni di euro per un numero di presenze in sala pari a quasi 86 milioni. Dati questi che nel confronto con l’anno precedente mostrano una flessione rispettivamente del 4,98% e del 6,89%.

Al di là del valore positivo della quota del mercato nazionale del 23% (rispetto al 17,6% del 2017), viene naturale interrogarsi sulle dinamiche, in gran parte dei casi ormai decennali, che sottendono la flessione dei risultati in sala. Generalmente sembra più semplice e immediato attribuire le responsabilità da un lato verso un tipo di offerta del prodotto cinematografico che fatica a rispondere in maniera adeguata alle richieste del pubblico, dall’altro, verso la maggiore disponibilità di contenuti audiovisivi fruibili comodamente da casa e con modalità personalizzate.

L’elemento di indagine che manca a queste supposizioni, e che merita un maggiore approfondimento, è il modo in cui si concretizza la relazione tra il parco sale italiano e i suoi fruitori, da cui dipende l’effettivo accesso di quest’ultimi alla sala cinematografica.
Nonostante l’Italia sia al secondo posto in Europa per numero di schermi (83 per milione di abitanti, mentre la Francia è in testa con 91 schermi), persiste una modesta disponibilità degli spettatori a frequentare in modo assiduo le sale. Si tratta di un dato di fatto analizzato nel dettaglio anche dalla recente ricerca del Censis “Il valore sociale del cinema italiano”, sostenuta dalla Direzione Generale Cinema del Mibac. Dall’elaborazione dei dati Istat emerge un quadro non molto positivo: il 50,5% degli italiani con più di 6 anni non hanno visto neanche un film al cinema nel 2017, mentre un 30% vi si è recato da 1 a 3 volte. E non è un problema che si può banalmente imputare alla perdita di interesse del pubblico più giovane, perché proprio questa fascia d’età dimostra 8 volte su 10 di preferire il cinema ad altre attività d’intrattenimento.

Semmai le cause sono da ricercare proprio in quel rapporto sale-spettatori, sempre più articolato quando si vanno ad analizzare due suoi limiti: una distribuzione disomogenea delle sale sul territorio nazionale e una stagionalità della fruizione cinematografica ben radicata nelle abitudini comuni. Non a caso il secondo motivo per cui un italiano non va al cinema, secondo le ricerche Istat elaborate dal Censis, è la mancanza di una struttura nel proprio comune, superato solo dalla preferenza per la visione domestica. Infatti, alle aree metropolitane e ai comuni con più abitanti corrisponde una maggiore frequentazione delle sale; viceversa, complice anche la chiusura delle piccole sale, nel 90% dei comuni con meno di 5 mila abitanti non è presente alcun tipo di struttura adibita, anche occasionalmente, a sala cinematografica. È nel Meridione (ad eccezione della Puglia e della Sicilia), nelle zone dell’appennino emiliano e dell’arco alpino che questa assenza è più forte, coinvolgendo 23 milioni di persone, ossia il 37,9% della popolazione.
La conseguenza in termini pratici è che per raggiungere la sala più vicina spesso si debba percorrere distanze massime variabili, che vanno dai più ragionevoli 5 o 10 minuti ai 20-30 minuti per regioni come l’Emilia-Romagna, la Sicilia o il Lazio, fino a raggiugere addirittura i 50 minuti in Sardegna e i 90 in Calabria. Va ricordato che la Legge Cinema operativa dal 2017 prevede un Piano straordinario del valore di 120 milioni di euro in 5 anni per modernizzare il parco sale, con un’attenzione particolare agli interventi di ripristino di sale inattive nei piccoli centri storici.

Oltre alla concentrazione territoriale delle sale, l’affluenza e i relativi risultati economici risentono anche delle abitudini di fruizione, che vedono un picco di ingressi tra dicembre e gennaio, con un drastico calo nei mesi estivi (in particolare a luglio) dove vengono staccati il 20% dei biglietti del periodo invernale o prettamente natalizio. Su questa problematica storica si è però aperta una collaborazione tra più parti del settore, anche quella istituzionale, finalizzata a curare con particolare attenzione la programmazione che interesserà i 5 mesi più deboli dell’anno, da aprile ad agosto, per i prossimi tre anni. Dopo le prime adesioni da parte delle grandi major, come Universal, Warner e Disney, c’è grande speranza sulla partecipazione cospicua anche dei distributori italiani per costruire un’offerta cinematografica che faccia venire il desiderio di andare al cinema durante tutto l’arco dell’anno, non solo a Natale.

(si ringrazia per la collaborazione Azzurra Teoli)

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