Arrivati al termine della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, possiamo constatare senza tema di smentita che di Europa si è parlato pochissimo. Se nel nostro Paese è sostanzialmente impossibile trovare qualcuno che parli bene dell’attuale fase della costruzione europea, è quasi altrettanto difficile imbattersi in partiti o singoli candidati che al netto di slogan vuoti abbiano proposto una propria visione sul futuro politico del nostro continente degna di questo nome. Una contraddizione in termini che dovrebbe far riflettere.
Tanto più perché il tortuoso labirinto nel quale si è incuneata la Brexit impedisce a chiunque desideri essere preso sul serio di cavarsela invocando facili scappatoie del recente passato come un referendum, il refugium peccatorum di chi manifesta insoddisfazione ma non sa proporre un punto di vista davvero alternativo (e soprattutto realizzabile).
Eppure proprio la rinnovata consapevolezza che il nostro futuro sia inestricabilmente legato a quello dell’Unione europea e degli altri Stati membri avrebbe dovuto spingerci a interrogarci su quale Europa vogliamo e sul ruolo che l’Italia può ritagliarsi. Al di là dei tanto vituperati decimali di deficit in più o in meno che ci saranno concessi. Perché poi alla fine gran parte delle nostre speculazioni su ciò che ci attende a Bruxelles su quello va a parare. Trascurando questioni di importanza strategica ben più rilevante nel medio-lungo termine come una maggiore autosufficienza dell’Europa in termini di difesa e sicurezza e la competitività economica, che oggi ancor più che in passato passa dal primato tecnologico, come dimostra la guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina. Che il nostro Paese non abbia nulla da dire ad esempio su questi due aspetti (ma naturalmente potrebbero essere evocati degli altri) tradisce il nostro passato ma anche il nostro presente.
Nei primi anni Cinquanta, l’Italia di Alcide De Gasperi si spese molto nella nascita della Comunità europea di difesa, che avrebbe dovuto costituire le fondamenta di un progetto politico che mai si realizzò a causa della bocciatura nell’estate del ’54 da parte del Parlamento francese. L’Italia, che non dispone della deterrenza nucleare né della readiness delle forze armate francese o britannica ma allo stesso tempo ha una posizione geografica e ambizioni commerciali e industriali che la espongono sullo scacchiere internazionale, ha un evidente interesse a un rafforzamento della cooperazione strutturata permanente (PESCO), varata alla fine del 2017 e ancora in fase di costruzione. Peraltro, difesa e sicurezza rappresentano anche l’ambito nel quale molti dei Paesi dell’Est che remano in generale contro un rafforzamento delle istituzioni comunitarie sono disponibili a un significativo approfondimento della cooperazione. Una concreta opportunità per ingaggiarli in cambio su altri temi che ugualmente ci interessano, al di là delle maggioranze politiche di turno.
Ancor più clamorosa appare l’assenza dal dibattito della politica industriale di cui dovrebbe dotarsi l’Europa. Non certo nella versione spesso deteriore che ha avuto storicamente in Italia e in altri Stati membri, ma in quella moderna che ogni Paese che nutra ambizioni per il proprio sistema produttivo dovrebbe perseguire. Con un focus sulle condizioni di contesto che possano accompagnare una transizione tecnologica di successo. Che il secondo Paese manifatturiero d’Europa non si curi di partecipare alla discussione che si sta sviluppando altrove, con altri Stati Membri protagonisti, è a dir poco sconcertante.
A febbraio, Francia e Germania hanno pubblicato un manifesto congiunto sulla politica industriale europea per il XXI secolo. Una volta tanto, accanto a una serie di immancabili dichiarazioni di rito, le poche pagine del documento espongono contenuti tutt’altro che scontati. Talvolta pienamente condivisibili, ad esempio quando si auspica una strategia europea per il finanziamento delle tecnologie, il completamento dell’Unione dei mercati dei capitali (con un occhio soprattutto a un venture capital non più frammentato su base nazionale) o l’estensione dei Progetti di interesse comune, dopo le prime esperienze nel campo della microelettronica e delle batterie. Una modalità quest’ultima interessante di cooperazione perché consente la creazione di consorzi di Stati membri con l’impiego di risorse nazionali che vanno oltre l’esiguo bilancio comunitario.
Su un terreno scivoloso che potrebbe facilmente sconfinare nel protezionismo, il manifesto propone giustamente un meccanismo di piena reciprocità nel procurement pubblico verso Paesi terzi e una revisione delle regole di funzionamento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio per promuovere trasparenza e un contrasto più efficace alle pratiche di commercio sleale. Maggiori perplessità destano le proposte di revisione delle norme sulla concorrenza (con la possibilità in determinate circostanze per il Consiglio, che riunisce i Governi, di ribaltare le decisioni della Commissione europea) nonché il ruolo guida evocato per Francia e Germania nella promozione dell’intelligenza artificiale, posizione che non sembra automaticamente in linea con gli opportuni sforzi della Commissione europea di promuovere una cooperazione alla pari tra gli Stati Membri nella cornice di una Strategia coordinata a livello europeo.
L’Italia ha il buon diritto di criticare o sostenere le proposte di Francia o Germania o forse meglio potrebbe proporre una propria visione alternativa, basata ad esempio sugli interessi di un sistema produttivo imperniato sulle piccole e medie imprese (che non a caso non vengono mai evocate nel manifesto franco-tedesco, start-up innovative a parte). Ma disinteressarsene non sembra un’opzione lungimirante. Naturalmente la responsabilità non è solo del governo o degli attuali partiti che compongono la maggioranza ma rimane il fatto che se vogliamo che l’Europa cambi non possiamo aspettare passivamente gli eventi (determinati da altri Stati Membri o da emergenze esterne) oppure prendercela con figure mitologiche e dunque per definizione inafferrabili come i burocrati di Bruxelles o l’Europa delle banche. O ancora coltivare sogni palesemente irrealizzabili, come l’abbandono delle regole di bilancio o misure di centralizzazione della politica fiscale (proposte che anche qualora fossero condivisibili non risulteranno mai credibili agli occhi dei nostri partner finché proverranno da un Paese con il nostro debito pubblico).
Parafrasando la celeberrima caratterizzazione della politica di Rino Formica, l’impegno in Europa significa soprattutto sangue e norme. Solo se si uniscono la tenacia e la passione alla capacità di calarle in proposte articolate e attuabili, l’Italia può sperare di avanzare i propri interessi. Naturalmente trovando gli alleati necessari lungo la strada. Ma perché queste proposte non siano calate dall’alto ma siano oggetto di un dibattito sarebbe opportuno discuterle pubblicamente. E quale migliore occasione di una campagna elettorale? Sperando non se ne debba parlare tra qualche mese o qualche anno prendendosela con il solito complotto franco-tedesco o i perfidi burocrati di Bruxelles.