Quanto è importante il legame con il territorio per riuscire nell’impresa? E come sta cambiando il rapporto tra datori di lavoro e dipendenti anche alla luce della rivoluzione tecnologica in corso? Domande a cui ha provato a rispondere il presidente dell’Associazione nazionale per l’industria e il terziario (Anpit) Federico Iadicicco con il libro dal titolo “Santi eroi imprenditori. Storie di mestieri e comunità”, edito da Historica e scritto insieme a Marco Bachetti. Il pamphlet racconta le storie di sei italiani – o “Santi inconsapevoli“, come li definisce l’autore – che con un pizzico di lungimiranza e un po’ di fortuna, che non guasta mai, sono riusciti a coniugare vocazione al profitto e vocazione al lavoro. Da Giuseppe Lisciani e la sua fabbrica di giochi a Giovanni Lepore, il “re del pesce spada”, dalla famiglia Giuliano fino a Domenico Novembre e Marco Sermanini. Storie di avventure imprenditoriali, che in alcuni casi hanno varcato i confini nazionali fino ad arrivare a sbarcare in rilevanti mercati stranieri. Tutte, però, con un modello di localizzazione radicata in risposta al trasferimento massiccio dei processi produttivi all’estero. Di questo e della necessità di tornare a valorizzare il tessuto imprenditoriale italiano e locale abbiamo parlato con Iadicicco.
Nella prefazione il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano parla di una sorta di perdita dell’ideologia italiana. Come si inquadra in tal senso questo libro?
Quelle che raccontiamo sono storie di imprenditori tipicamente italiani di piccole realtà familiari, che negli anni sono riusciti a costruire grandi aziende. Risultati raggiunti anche grazie al rapporto che sono stati in gradi di creare con il territorio in cui operano, espressione di un imprenditorialità tutta italiana. E anche questa vocazione al bene comune così marcata è figlia della nostra cultura. Questo libro può suscitare una riscoperta dell’identità nazionale nel senso più positivo del termine.
Quanto è importante per un imprenditore il legame con il territorio?
Come ho scritto anche nella premessa del libro, un imprenditore che localizza – anziché delocalizzare – produce sicuramente un effetto positivo. Prima di tutto perché rimane sul territorio nazionale, anche a rischio di un aumento dei costi del lavoro. E poi perché contribuisce alla ricchezza del Paese che rappresenta un contributo rilevante all’economia nazionale. Non bisogna dimenticare pure la dimensione locale dell’azienda che rappresenta un interesse particolare sia per l’impresa che per i lavoratori. Penso, ad esempio, alla tutela dell’ambiente, ormai sempre più importante.
Nelle storie degli imprenditori che avete raccontato traspare un rapporto di fiducia e collaborazione tra datore di lavoro e dipendente. E’ questa la chiave?
Sì, ma è poco raccontato. Ecco perché abbiamo deciso di parlarne in questo libro. La crisi del 2008 è stata causata da due fattori principali a mio avviso: la delocalizzazione da un lato e la finanziarizzazione dell’economia dall’altro. La miriade di piccole e medie imprese rappresentano il cuore del tessuto produttivo non solo italiano ma anche europeo perché hanno mantenuto questa dimensione di relazione con i dipendenti e un rapporto diretto con il territorio d’origine.
E’ possibile applicare questo modello a realtà molto più grandi?
E’ necessario prevedere, anche attraverso strumenti legislativi, la partecipazione dei lavoratori agli organi decisionali delle aziende, soprattutto nelle grandi realtà. In Germania, ad esempio, esiste un modello improntato alla compartecipazione in grado di compensare questo squilibrio creato dalla grande dimensione dell’azienda.
In questo senso come sta cambiando il ruolo dei sindacati?
I corpi intermedi sono sempre un valore aggiunto per la società. Ma i sindacati, come pure le associazioni di categoria e i partiti politici, attraversano una grave crisi di rappresentanza. Sarebbe davvero anacronistico se continuassero a vivere, come avviene spesso tutt’ora, nella dimensione del conflitto, come se gli interessi del datore di lavoro e quelli del dipendente fossero in contrasto (ne abbiamo parlato anche in questa intervista a Emanuele Di Nicola).
In che modo dovrebbero cambiare?
Dovranno essere capaci di costruire un percorso di coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte aziendali. Sarebbe opportuno che contribuissero al miglioramento delle relazioni attraverso accordi di secondo livello o misure di welfare aziendale. Il nuovo ruolo delle associazioni di categoria e dei sindacati è uscire dalla dimensione del conflitto – che apparteneva al secolo precedente – ed entrare in quella dell’impresa come comunità. Se sapranno reinterpretare la loro posizione in questo senso, avranno sicuramente una funzione importantissima da svolgere.
Quali sono le difficoltà che incontrano i giovani imprenditori oggi?
Il problema principale per i nostri ragazzi è l’accesso al credito. Purtroppo difficilmente viene premiata la progettualità, ma ci si basa su garanzie reali che non sempre i giovani possono avere. Anche qui sarebbe necessario intervenire dal punto di vista legislativo. Poi ci sono i problemi più generali, quelli che incontra chiunque si approccia a una attività di impresa. Mi riferisco all’eccesso di burocrazia o all’alta pressione fiscale: un imprenditore oggi paga oltre il 65% di tasse. Il costo del lavoro è altissimo, a fronte di retribuzioni troppo basse.
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