Vi spiego perché in Italia paghiamo troppe tasse (e cosa servirebbe per abbassarle). Parla il prof. Melis


Articolo
Giulia Palocci
tasse

Nel 2019 la pressione fiscale è cresciuta ancora in Italia. Secondo gli ultimi dati Istat, oggi si attesta al 42,2%, lo 0,1 in più rispetto al 2018. Una cifra che al primo sguardo non sembra poi così rilevante, ma che, se confrontata con gli anni precedenti, segna per la prima volta dopo il 2012 un aumento della tassazione nel nostro Paese (qui un nostro articolo sul tema). Ma cosa spinge la pressione fiscale così in alto? Che tipo di riforma sarebbe necessaria per invertire la rotta? E com’è la situazione negli altri Paesi europei? Di questo e non solo abbiamo parlato con il professor Giuseppe Melis, docente di Diritto tributario della Luiss Guido Carli, avvocato cassazionista, commercialista e revisore dei conti.

Professor Melis, perché in Italia paghiamo così tante tasse?

Principalmente perché le entrate seguono le spese. Se queste ultime si attestano a un certo livello, le entrate devono essere tali da coprirle. L’Italia ha pure i vincoli che derivano dalla partecipazione all’Unione europea, quindi l’imposizione è così alta per garantire il sostegno della spesa. Il problema a questo punto è come distribuire quest’onere tra i componenti della collettività. E lo si fa attraverso una serie di misure di natura essenzialmente fiscale. Il legislatore sceglie il mix dei vari tributi e poi distribuisce il costo nella società. Più è alto l’ammontare della spesa, maggiore sarà il carico fiscale. In pratica o si genera nuova ricchezza oppure si riducono le spese.

Una riforma del sistema fiscale da dove dovrebbe partire secondo lei?

E’ estremamente difficile dirlo. Solo il termine “riforma” potrebbe abbracciare qualsiasi cosa. C’è prima di tutto una questione di natura macroeconomica: bisogna capire se è necessario cambiare il mix dei tributi. In secondo luogo c’è un problema che si avvicina di più alla microeconomia. Bisogna valutare se è più opportuno incidere sulla loro struttura singolarmente e come distribuire l’onere dei singoli tributi sulla collettività.

Può farci un esempio?

Si pensi all’Irpef, di cui oggi si discute molto. E’ un’imposta che ha una sua struttura e colpisce in gran parte i redditi da lavoro. Ma la maggior parte di questi è esclusa dalla tassa. Mi riferisco a quelli fondiari per la parte interessata dalla cedolare secca, ai redditi da capitale e, dopo l’applicazione della flax tax alle partite Iva, anche al lavoro autonomo. In questo caso è giusto continuare su questa strada oppure rimettere tutto nel calderone dell’imposta progressiva? La scelta non spetta al tributarista, che individua le soluzioni giuridiche. Si tratta di tax policies.

E quale strada è stata presa?

L’attuale governo, ad esempio, tende a ragionare nell’ottica della sottrazione dei redditi alla progressività. Una scelta che ha una sua logica. La tendenza oggi è questa. Resta comunque il problema del lavoro dipendente, l’unico reddito tassato in modo progressivo insieme a quello dei lavoratori autonomi che guadagnano oltre 75.000 euro in anno. Una riforma oggi dovrebbe partire dal presupposto di ripensare tutto. Ma una domanda è fondamentale: ne vale davvero la pena?

C’è un modello fiscale di un Paese europeo a cui l’Italia potrebbe ispirarsi?

Il nostro non è un problema di struttura. La qualità legislativa in Italia è molto alta e i tecnici sono estremamente qualificati. Il nostro è un buon prodotto giuridico. Il problema dell’Italia è legato all’applicazione di queste norme. Negli ultimi anni però (e per fortuna) si è sviluppato un sistema di compliance che permette di chiedere all’amministrazione finanziaria come va interpretata una certa norma in un caso concreto oppure quali possono essere gli effetti di una determinata operazione. Questo aspetto collaborativo è molto importante. Insomma, sono strumenti per prevenire l’incertezza che, insieme alla giustizia tributaria, è il grande male del nostro sistema fiscale.

Sarebbe giusto, secondo lei, dare vita a un’unione fiscale europea?

L’unione fiscale presuppone un potere sulla spesa. Noi trasferiamo soldi all’Unione europea e gli attribuiamo anche funzioni. Ma quali? A mio avviso tutte le funzioni sono gestite  meglio a livello locale, che centrale. L’unione fiscale in mancanza di attribuzione di funzioni la trovo una cosa priva di senso. Questione diversa invece se si procede sul meccanismo dell’armonizzazione. Anche qui i problemi non mancano. Ci sono Paesi in cui la normativa è perfettamente lineare ma poi si deve contrattare con l’amministrazione locale per mandare il 95% dei profitti in un paradiso fiscale. Questo avviene perché in alcuni contesti è più importante avere occupazione piuttosto che gettito. E’ un fatto molto grave. Tutti hanno allineato le normative, ma poi c’è chi sottobanco ha fatto accordi. Per non parlare poi del blocco degli Stati orientali: con una bassa spesa pubblica, questi Paesi hanno stabilito aliquote bassissime e non avrebbero nessun motivo per adeguarle al resto d’Europa.

Pensa che il cosiddetto “quoziente familiare” applicato in Francia possa funzionare in Italia?

Che il sistema fiscale debba tenere conto della famiglia è un fatto incontestabile. Questa è una delle misure che potrebbe rilanciare anche il tasso di natalità in Italia. Nel caso specifico, in Francia si è arrivati a parlare addirittura di “figlio fiscale” per le agevolazioni fiscali di cui godono le famiglie più numerose. Detto ciò, l’unico problema è che questi sistemi hanno un costo. In Francia, ad esempio, costa oltre dieci miliardi di euro. Bisogna capire se ci sono le risorse a disposizione, come spenderle e su cosa concentrale. Che il fattore fiscale sia importantissimo per la famiglia tuttavia è fuori discussione.

Ufficio stampa e Comunicazione dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Nata a Roma nel 1992, Giulia Palocci si è laureata con il voto di 110 e lode in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’università Luiss Guido Carli con una tesi sul contrasto al finanziamento del terrorismo nei Paesi del Sud-est asiatico.

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