L’Italia deve investire in infrastrutture. E deve farlo nell’ambito di un partenariato pubblico-privato che, attraverso le remunerazioni del capitale investito, possa garantire un aumento degli investimenti e uno slancio della competitività del nostro Paese rispetto agli altri Stati europei (qui l’intervista a Stefano Cianciotta e Alberto Brambilla). E’ ciò che emerge dallo studio dal titolo “La remunerazione delle opere infrastrutturali a partenariato pubblico e privato” condotto da Marco Vulpiani, a capo del team Infrastructure & Capital project di Deloitte, con la peer review di Raffaele Oriani, associate dean Luiss Business School. Attraverso un’accurata analisi della letteratura esistente, seguita poi da un’indagine empirica, il rapporto individua i modelli di riferimento a livello italiano ed europeo in quattro settori di riferimento: il ferroviario, quello della trasmissione elettrica, quello del trasporto del gas e infine quello autostradale.
LA CONTRIBUZIONE PUBBLICA
Sempre più spesso la pubblica amministrazione italiana ricorre alla sottoscrizione di contratti di partenariato pubblico-privato che, se in un primo momento sembravano essere solo complementari al finanziamento delle opere pubbliche, oggi sono diventati veri e propri strumenti attraverso cui risultano facilitate e più convenienti la realizzazione, la ristrutturazione e la gestione delle opere infrastrutturali. La contribuzione pubblica si realizza in forme differenti. La strada che oggi sembra andare per la maggiore è il cosiddetto “riscaldamento delle opere fredde“, un’autentica integrazione tra opere calde (alta sostenibilità economica e finanziaria, logica di mercato e bassa contribuzione pubblica) e opere fredde (bassa sostenibilità e finanziaria, logica sociale e alta contribuzione pubblica). In pratica, si tratta ad esempio di bilanciare la costruzione di un parco pubblico con quella di un’autostrada e considerare il tutto come un unico progetto gestito da un privato. “Gli investimenti in infrastrutture presentano benefici sia di breve termine, come aumento della domanda aggregata e crescita economica, sia di lungo periodo, come l’incremento della produttività, della competitività e dell’attrattività del Paese”, ha dichiarato il direttore della Luiss Business School Paolo Boccardelli. Che ha poi continuato: “Senza dimenticare i vantaggi sociali legati al miglioramento della qualità della vita e al benessere”Una compensazione tra valore sociale, perseguito dalla parte pubblica, e valore economico, a cui al contrario aspira l’attore privato“.
LA REMUNERAZIONE DEL CAPITALE TRA EUROPA E ITALIA
Lo studio si sofferma sulla letteratura rilevante in materia in Europa e in Italia. Nel Vecchio continente su un totale di 55 tra pubblicazioni e studi consultati, il 90% sottolinea la previsione di una remunerazione del capitale investito in opere infrastrutturali realizzate attraverso il partenariato pubblico-privato. Al contrario, solo il 10% ritiene la remunerazione non necessaria in questi casi. Più equilibrati, ma comunque a favore della convenienza dei cosiddetti “contratti PPP“, i risultati ottenuti dall’indagine condotta sulla letteratura italiana. Su tredici paper consultati, il 75% sostiene l’adeguato ritorno economico sull’investimento mentre il 25 ritiene che la remunerazione non sia adeguata. La maggior parte dei documenti favorevoli al partenariato pubblico-privato presi in esame interpreta tuttavia la remunerazione come diretta conseguenza del rischio e della responsabilità che gli investitori assumono. Ma cos’è la remunerazione? Si tratta del ritorno economico del capitale investito e comprende gli interessi sul debito contratto per investimenti sulla rete e sugli impianti, le tasse sul reddito, il profitto del gestore.
IL BENCHMARK EUROPEO
L’analisi a livello europeo si concentra su quattro settori. Nel 100% dei casi considerati il capitale investito viene remunerato nel comparto della trasmissione elettrica e in quello del trasporto del gas. Subito dopo c’è il ferroviario dove in ben il 79% dei casi (tra cui l’Italia) è prevista la remunerazione contro il 21 registrato dalle performance di Finlandia, Belgio, Lussemburgo e Portogallo. Si abbassa invece la percentuale nel settore che comprende le strade e le autostrade: il ritorno dell’investimento non è previsto nel 37% dei casi. Si tratta di Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia, Finlandia, Lettonia, Estonia e Lituania. Una percentuale modesta comunque rispetto al 63% che hanno fatto registrare gli altri Paesi considerati. Il rapporto sottolinea poi i principali metodi di remunerazione in Europa. Il primo, l’incentive-based method, prevede la definizione di una tariffa iniziale oggetto di revisione periodica considerando il prezzo che l’impresa dovrebbe praticare per ottenere un tasso di rendimento soddisfacente. L’altro, basato invece sui costi, prevede una stima dei costi che ogni regolatore decide di considerare al fine della determinazione delle tariffe. In questo caso il rischio assunto sarà minore grazie a una maggiore stabilità della remunerazione.
QUAL E’ LA DURATA DEL PERIODO TARIFFARIO NEI PAESI EUROPEI?
I periodi tariffari sono diversi a seconda del settore e del Paese di riferimento. Nello specifico il periodo più lungo nel comparto della trasmissione energetica è quello del Regno Unito, in cui la stessa tariffa viene applicata per ben otto anni. Seguono la Germania con cinque anni, l’italia e la Francia con quattro e la Spagna con uno. Anche nel trasporto del gas il Regno Unito applica gli otto anni. In questo caso invece l’Italia sei, la Germania cinque, la Francia quattro e la Spagna a discrezione del Ministero di riferimento. I settori autostradale e stradale e quello ferroviario vanno di pari passo. Italia, Spagna e Regno Unito applicano un periodo tariffario di cinque anni mentre la Germania e la Francia di quattro.
INVESTIRE NELLE INFRASTRUTTURE PER RILANCIARE IL PAESE
Dall’indagine emerge una chiara necessità di investire nel settore delle infrastrutture, almeno in Italia. “Per ridare slancio alla competitività del nostro Paese, è importante superare la dicotomia tra opere infrastrutturali incentrate su logica sociale e su quella di mercato, perseguendo la creazione di valore sociale ma senza abbandonare l’orientamento alla creazione di valore finanziario”, ha detto Vulpiani. E’ chiaro che incentivare la partecipazione dei soggetti privati sia il primo passo da fare. Lo studio suggerisce due strade da intraprendere simultaneamente: prima di tutto bisogna distinguere tra forme di incentivazione per le opere esistenti (che quindi hanno già beneficiato dei contributi pubblici) e quelle per le opere da costruire ex novo, in cui invece il rischio dell’investimento è evidentemente più alto. In secondo luogo sarebbe opportuno prevedere altre forme di incentivi basati su variabili diverse come, ad esempio, la durata delle concessioni, le agevolazioni fiscali sui redditi, il valore di subentro riconosciuto. Lo ha confermato anche Vulpiani secondo cui “in un contesto di sempre maggiore scarsità di risorse finanziarie pubbliche, se non si trovano forme adeguate e innovative di incentivazione agli investimenti del soggetto privato, lo sviluppo infrastrutturale del Paese è inevitabilmente destinato al declino, con inevitabili riflessi sull’economia”.