“Il calo tendenziale della fiducia nei politici, nei partiti e nelle istituzioni, la diminuzione della partecipazione elettorale e l’aumento della volatilità nelle scelte di voto. Ma anche l’incremento del numero dei partiti e la riduzione della durata in carica dei governi, come pure l’a crescita dell’uso dei referendum e delle consultazioni popolari e l’esplosione dei populismo”. Sono questi i sintomi che più di tutti definiscono la crisi della democrazia. O, per lo meno, lo sono secondo il professore di Comunicazione pubblica, politica e sfera digitale e di Web e social media per la politica dell’Università della Tuscia Luigi Di Gregorio che nel suo libro dal titolo “Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico“, edito da Rubbettino, si è interrogato sull’evoluzione della democrazia e su come si sia giunti a quello che lui ha definito nel saggio un vero e proprio malessere democratico. Una patologia accelerata dai mass media, dall’innovazione tecnologica e dalla velocità con cui la società dei consumi si è diffusa. Ma cosa è successo alle nostre democrazie? Perché vivono una crisi di legittimità e di performance proprio quando sembravano indiscutibilmente vincenti? A queste domande il professor Di Gregorio ha cercato di rispondere in questa conversazione con l’Istituto per la Competitività (I-Com), che ospiterà la presentazione del suo libro venerdì 15 novembre (insieme a Popolo e populismo di Angelo Bruscino e Alessio Postiglione, qui l’intervista). Ne discuteranno con gli autori il professore di Storia delle istituzioni in Europa della Luiss Guido Carli Lorenzo Castellani, il delegato Ferpi Lazio Giuseppe De Lucia, il responsabile di Leggo.it Marco Esposito, il professore di Sociologia della comunicazione della Luiss Guido Carli e partner di Comin & Partners Gianluca Giansante, il filosofo Corrado Ocone, il direttore dell’Agenzia Dire Nico Perrone e il senatore del M5s Vincenzo Presutto.
Professor Di Gregorio, perché Demopatìa? Cosa vuol dire?
Demopatìa è il nome che ho scelto per definire l’attuale malessere democratico. Un malessere con tanti sintomi, diffusi e generalizzati, che ci descrivono una democrazia non proprio in piena forma. Io ho provato a capire se la ragione fosse sistemica, profonda, al di là di singoli responsabili. E sono giunto alla conclusione che è il demos a essere profondamente cambiato negli ultimi decenni. Ciò comporta, come conseguenza, una politica poco performante, quasi suicida, all’interno di un circolo vizioso che lega opinione pubblica, sistema mediatico e classe politica.
Quindi è il popolo a essere malato?
Definirlo malato può essere eccessivo, ma sicuramente è cambiato ed è molto diverso da quello che pensavamo potesse diventare. Sognavamo un’opinione pubblica informata, un web foriero di intelligenza collettiva, una classe politica post-ideologica che facesse scelte data-driven. Ci troviamo invece a fare i conti con nuove tribù, post-verità, odio online, politica spettacolo, effetti annuncio, stampa sensazionalistica e cose di questo genere.
Quali fattori, a suo avviso, hanno determinato questa situazione?
Tre grandi motori hanno spinto verso la stessa direzione. La modernità ha generato individualizzazione, ha eroso tutte le credenze stabili e ci ha portato verso una società psicologica e narcisistica. Poi il consumismo ha allenato e allevato l’individualismo e ha esportato la logica dell’usa e getta in tutti gli ambiti dell’esistenza umana, talvolta fino alle relazioni personali. Per finire le innovazioni tecnologiche hanno intrapreso la strada del tempo reale e dell’immagine, riducendo così lo spazio per la logica, il ragionamento e la profondità.
In che misura ritiene che i mass media e i social network abbiano influito sul comportamento dell’elettorato?
Mass media e social network prevalentemente amplificano conseguenze già introdotte dall’era televisiva: centralità dell’immagine, velocità e frammenti che dominano sul contesto. E ancora irrilevanza che diventa notizia, sensazionalismo per catturare l’attenzione in un mercato iper-saturo ed emozioni che prevalgono sul ragionamento. Inoltre, a causa degli algoritmi, alimentano il fenomeno del cosiddetto gruppismo, polarizzando le opinioni e trasformandole, nel percepito dei singoli, in verità supportate da numeri.
Si tratta di un processo irreversibile secondo lei?
Questo non lo sappiamo. Certo, tutti questi processi portano nella stessa direzione, quella appunto di una società narcisistica, priva di orientamento storico-culturale e spazio-temporale. Un contesto dominato da istinti, istanti e immaginario che la rende facilmente una società di creduloni, come è stata recentemente definita.
Come si ripercuote tutto ciò sulla politica, sui partiti e, in generale, sulle istituzioni?
La politica non può che adeguarsi e provare a sfruttare queste dinamiche. Deve essere fast, giocare sulle emozioni, pensare all’immediato e non al lungo periodo, personalizzarsi (cercando leader mediatici), raccontarci storie mobilitanti e sintonizzate sulle nostre emozioni e convinzioni, e così via. Se non lo fa, semplicemente non viene percepita dall’opinione pubblica. Oggi cercare di costruire consenso ha una sola strada maestra: avere un leader che funziona sui media, avere un messaggio emotivamente impattante e farlo derivare dall’opinione della massa. In pratica i leader che funzionano sono in realtà ottimi follower, la democrazia è sempre più una sondocrazia e l’opinione pubblica è sempre più emozione pubblica.
Qual è l’impatto invece sulla qualità del governo?
In questo scenario governare logora come mai prima d’ora. E questo succede per diverse ragioni. Innanzitutto chi governa non può essere incoerente come chi è all’opposizione. In secondo luogo i risultati ottenuti non fanno notizia, al contrario degli eventi negativi. Poi la mobilitazione emotiva messa in campo per ottenere consenso non è facilmente replicabile una volta al governo, proprio perché non si può oscillare serenamente sui cambi d’umore e di posizione del popolo. Inoltre, subentra sempre la cosiddetta sindrome consumista: dopo un po’ ci annoiamo e abbiamo bisogno di novità. “Change” è lo slogan elettorale più utilizzato nel mondo. Nessuno oggi può candidarsi a governare se non promette di cambiare tutto.
Ritiene che gli effetti distorsivi di questa patologia siano amplificati in Italia dal nostro assetto istituzionale? La mancanza di meccanismi in grado di garantire la governabilità rischia di rendere ancora più patologica questa situazione?
Solo in parte. Le cose che scrivo nel mio libro spesso derivano da riflessioni di autori che non vivono in Italia e non la studiano. Si tratta di un processo globale, che coinvolge tutte le democrazie. Dare maggiore stabilità a un governo, magari con una riforma presidenziale, garantisce automaticamente più efficacia? Forse. Ma probabilmente sovraespone maggiormente il leader di turno che dunque rischia di essere “cestinato” ancor prima dall’elettore-consumatore.
I leader sono una delle cause di questa patologia? Oppure ne sono il riflesso?
Ne sono un prodotto, necessario. Oggi un partito senza un nome, una faccia, un corpo, una storia personale parte nettamente svantaggiato nella contesa per il consenso. La personalizzazione è un processo generalizzato che va oltre la politica: è figlio dell’individualizzazione e del narcisismo e pure dei media incentrati sull’immagine. Dei leader non possiamo farne a meno, come dei capri espiatori. È un segno dei tempi.