Un muro che sembra la Grande muraglia cinese. Da un lato i giovani italiani che dopo la conclusione del percorso formativo sono pronti a costruire la loro professionalità. Dall’altro il mondo del lavoro, quello reale, al quale aspirano. C’è chi con determinazione e sacrifici riesce a passare dall’altra parte. Chi invece gli volta le spalle e decide di prendere altre strade per soddisfare la propria voglia di affermazione. E’ il muro del cosiddetto divario generazionale, l’indice che misura il grado di difficoltà che un giovane deve affrontare per raggiungere le principali tappe che lo conducono a una vita autonoma e di realizzazione personale e professionale. Ancora oggi, oltre tre milioni di giovani si trovano in una condizione di inoccupazione. Sono i cosiddetti Neet, letteramente “Neither in Employment nor in Education or Training“, i ragazzi di età compresa tra i 15 e i 34 anni che non studiano né lavorano (qui una nostra intervista con il professor Luciano Monti). E’ quanto emerge dal rapporto della Fondazione Bruno Visentini dal titolo “Il divario generazionale e il reddito di opportunità“, presentato a Roma lo scorso 5 dicembre. Ne abbiamo parlato con il professor Luciano Monti, docente all’università Luiss Guido Carli, che ha curato lo studio.
Professor Monti, lo scorso anno ci eravamo lasciati con un divario generazionale di 127 punti. Cosa è cambiato?
Quest’anno possiamo vedere il bicchiere mezzo pieno: abbiamo invertito la tendenza a partire dal 2014 e (fortunatamente) abbiamo smentito le nostre previsioni funeste al 2030. Continua comunque a rimanere molto elevato e si attesta a 128, un punto in più dell’anno scorso.
Anche quest’anno un focus è dedicato all’Atlante delle misure generazionali. A suo parere il governo è pienamente consapevole dell’emergenza generazionale?
Non proprio. Anzi, a mio avviso c’è piuttosto una visione disorganica della politica giovanile. E soprattutto manca una strategia di medio-lungo termine. Basti pensare che le risorse a disposizione sono passate da quattro a tre miliardi e mezzo di euro. La manovra del governo non solo non ha aumentato, ma ha addirittura ridotto i fondi, pur mantendendo un numero elevato di misure. Nella legge di Bilancio 2019 ci sono 33 misure generazionali, 18 potenzialmente generazionali e 2 anti-generazionali.
Tra queste ultime ci sono il Reddito di Cittadinanza e Quota 100?
Quota 100 per sua natura non può essere considerata una misura generazionale. Ma non lo è neppure il Reddito di Cittadinanza perché i dati attuali ci dicono che i grandi beneficiari sono gli over 35. Ma sono anti-generazionali? La prima senza dubbio. Quell’effetto di sostegno a una nuova occupazione giovanile non si sta realizzando: i lavoratori che vanno in pensione anticipata, normalmente non vengono sostituiti. Per la seconda non possiamo fare questa valutazione oggi, bisogna aspettare e vedere che tipo di impatti avrà sull’economia.
Quest’anno avete introdotto il cosiddetto spread sociale. Di cosa si tratta?
E’ la differenza tra le difficoltà incontrate da un giovane del Nord e uno del Sud. Il primo dobbiamo considerarlo come un Bund tedesco mentre il secondo come un Buono del tesoro poliennale (Btp) italiano. Il divario è inquietante: siamo passati dai 400 punti base del 2004 ai circa 470 del 2018, con un’impennata proprio nell’ultimo anno. Addirittura si sfiora il record assoluto che è stato raggiunto nel 2011, in piena recessione. In pratica nel Mezzogiorno il muro del divario rischia di essere una prigione.
Come si colloca, secondo lei, la questione ambientale in questo quadro? E perché è così importante?
E’ chiaro che sia una componente fondamentale, ma a mio avviso non è l’unica. Oltre quel muro che i giovani devono scavalcare, è giusto che ad aspettarli ci sia un Paese non degradato, un patrimonio ambientale tutelato e una vita accettabile. Ma soprattutto un’economia sostenibile e adeguata alle loro esigenze. Immaginiamo un triangolo: sulla punta mettiamo il lavoro, a un vertice della base posizioniamo l’ambiente e all’altro l’innovazione, senza la quale non saremmo competitivi e non riusciremmo nemmeno a raggiungere il cosiddetto impatto zero.
L’Agenda 2030, al Goal 8, punta a dare attuazione entro il 2020 al Patto per l’occupazione dei giovani. A che punto siamo?
Siamo ancora all’anno zero. Partendo dalle parole del segretario generale della Cgil Maurizio Landini: “Bisogna ricostruire la fiducia nel Paese e dare voce ai giovani“. Ma cosa significa? Prima di tutto tenere conto delle loro esigenze. Quindi il Patto deve partire da un processo di ascolto dei giovani. I loro bisogni sono cambiati negli anni, si stanno già adeguando a un’economia di rete, di competenze, e non di professioni. E’ un ribaltamento totale rispetto al passato.
Poi cosa prevede il Patto?
Il secondo elemento ha a che fare con la programmazione: deve essere una strategia di medio-lungo periodo, in pratica pluriennale. Non si può immaginare che una questione del genere abbia come prospettiva pochi mesi, un anno o una legislatura. Una volta recepite queste proposte dal governo, sarebbe opportuno racchiuderle in una Legge quadro, ossia un complesso di norme messe a disposizione in un unico strumento. Noi proponiamo nello specifico il cosiddetto Reddito di opportunità, ma sarà la politica a decidere. L’importante è che metta sul tavolo una cornice all’interno della quale muoversi.
Quindi la scadenza sarà proprio il 2020?
Noi cercheremo di lavorare a una prima bozza di Patto per l’occupazione giovanile che sarà presentata in occasione del Festival dello sviluppo sostenibile 2020, ospitato – per quanto riguarda il Goal 8 – proprio dalla Luiss Guido Carli.