Negli ultimi giorni la questione del coronavirus ha dominato il dibattito pubblico. Oltre alle serissime conseguenze legate alla salute delle persone, si tratta di un’emergenza mondiale con importanti ripercussioni anche sotto il profilo economico. A sostenerlo, tra gli altri, è l’Oxford Economics, secondo cui il primo trimestre del 2020 vedrà una crescita del prodotto interno lordo cinese inferiore di due punti percentuali rispetto alle attese. Secondo il capo economista di Standard & Poor’s per l’area Asia-Pacifico Shaun Roache, l’economia della Cina potrebbe subire una contrazione dell’1,2% qualora le spese delle famiglie per trasporti e divertimento in luoghi pubblici dovessero scendere di dieci punti percentuali. A livello mondiale, uno studio condotto dalla John Hopkins University, in collaborazione con il World Economic Forum e la Fondazione di Bill and Melinda Gates, ha ribadito gli stessi timori: una riduzione della crescita del prodotto interno lordo cinese dell’1% potrebbe avere un impatto del 2% sull’economia mondiale (qui un nostro recente articolo sulle ripercussioni dei cambiamenti climatici sulla stabilità finanziaria).
Intanto, nei giorni scorsi il comparto azionario delle compagnie aeree, così come quello automobilistico e del settore del lusso, ha subito perdite ingenti mentre quelle delle principali borse cinesi di Shanghai e Shenzen hanno ammontato a circa 420 miliardi di euro. Tutto questo perché il virus ha provocato non solo un elevato livello di incertezza generale, ma anche un blocco degli spostamenti di milioni di persone. Per non parlare della chiusura di molte fabbriche in maniera inaspettata. Ad esempio, la multinazionale giapponese Toyota ha sospeso la produzione fino al 9 febbraio mentre la coreana Hyundai ha deciso di interrompere la sua attività per via della mancanza di componenti provenienti dalla Cina. Intanto Honda, Nissan, Psa e Renault hanno cominciato a rimpatriare i dipendenti. E ancora, Starbucks ha annunciato la chiusura temporanea di metà dei propri punti vendita in Cina e allo stesso modo l’amministratore delegato di Apple Tim Cook ha dichiarato la chiusura di uno store e la riduzione dell’orario di apertura di quelli rimanenti. Inoltre, secondo quanto riportato dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), già 46 compagnie aeree hanno sospeso i collegamenti con il secondo Paese più potente del pianeta. Una scelta che avrà un impatto considerevole sull’afflusso di turisti cinesi in tutto il mondo e ricadute pesanti sui consumi e sulle vendite dei prodotti di lusso.
Per provare a far fronte a questa crisi, il governo cinese ha deciso di abbassare i tassi sui prestiti e di impegnarsi a garantire un adeguato livello di liquidità. Per questo motivo lunedì 3 febbraio Pechino ha iniettato 1.200 miliardi di yuan (pari a 173 miliardi di dollari) per stimolare il settore bancario. Rispetto all’epidemia del 2003, che portò con sé un costo globale di 40 miliardi di dollari e limitò l’economia cinese dello 0,8%, le conseguenze del coronavirus potrebbero essere ancora più devastanti. Considerato anche che nel 2002 i consumi pesavano il 55% sulla crescita del prodotto interno lordo mentre nel 2018 hanno toccato il 76,2% (dati Fondazione Italia Cina). Non solo, perché all’epoca della Sars la Cina contribuiva per il 4% della ricchezza mondiale mentre adesso è arrivata al 17. Intanto, dal 25 gennaio il settore dei trasporti cinese ha subito un calo del servizio pari al 28,8% rispetto all’anno precedente, con una predominanza legata a quello aereo civile (42%). Seguono quello ferroviario e su strada. Le conseguenze della crisi sono già emerse anche nel comparto petrolifero: il 3 febbraio il prezzo del greggio è crollato a 54,5 dollari al barile (-3,9% rispetto alla fine della settimana precedente e ai minimi da 13 mesi) mentre il West Texas Intermediate (Wti) ha perso il 3,1%, fino ad arrivare a 49,97 dollari al barile (-20% rispetto al picco di gennaio). L’Iran, che esporta molto petrolio in Cina, ha chiesto ai Paesi produttori di intervenire attraverso un taglio della produzione. A confermare le stime c’è anche Reuters, secondo cui la domanda globale di petrolio del 2020 potrebbe subire una contrazione di circa mezzo milione di barili al giorno.
Le ripercussioni del coronavirus saranno ben visibili (purtroppo) anche nel turismo. Basti pensare che in quest’ultimo settore il consumo dei cittadini cinesi equivale a un terzo del mercato globale (dati Fondazione Italia Cina). Dinamiche, queste, che si ripercuoteranno anche sull’Italia, con una contrazione della spesa turistica, secondo le stime pari a 4,5 miliardi di euro (circa un quinto dell’intero prodotto interno lordo turistico italiano). Secondo l’Istituto Demoskopica, le regioni in cui il calo sarà maggiore sono Lazio, Toscana, Veneto e Lombardia. La riduzione degli arrivi è stimata intorno ai 4,7 milioni, ben 14,6 milioni di presenze in meno rispetto al 2018. In base a quanto riportato da Agi, la forte contrazione non riguarderà solamente i cinesi, che però contribuiranno in maniera significativa: “Il rischio di contrazione più rilevante si registrerebbe dalla Cina: meno 1,3 milioni di arrivi e meno 2,1 milioni di presenze. A seguire la Germania con una contrazione pari a 1,3 milioni di arrivi e di 5,9 di presenze; gli Stati Uniti con una contrazione pari a 566 mila arrivi e a 1,5 milioni di presenze“. Se consideriamo anche gli inglesi e i francesi, il calo di presenze aumenterebbe di circa 2,8 milioni. Il decremento della spesa turistica da parte della Cina in Italia dovrebbe arrivare a 2 miliardi di euro mentre gli Stati Uniti si fermerebbero a 693 milioni, la Germania a 551, il Giappone a 243 e il Regno Unito a 223. E’ bene ricordare che si tratta solo di stime preliminari, che poggiano su basi particolarmente fragili per quanto riguarda il medio-lungo periodo. Tuttavia, la resilienza e le capacità di gestione dei rischi dell’economia mondiale, incluso il settore turistico italiano, saranno messi a dura prova.