Quando a pagare il conto sono i giovani. La versione di Francesco Vecchi


Intervista
Andrea Picardi
Giovani

La Prima Repubblica non si scorda mai, cantava Checco Zalone nel film campione d’incassi Quo Vado?, una corrosiva e divertentissima satira sugli eccessi di una stagione politica che ha garantito privilegi a molti. Anzi, a troppi. Una fase a cui però, soprattutto in questi tempi di crisi economica, siamo tentati di guardare con qualche punta di nostalgia. E dire, tuttavia, che proprio in quel periodo, e in particolare negli anni ’70 e ’80, sono state poste le basi per l’emergere di quelle difficoltà finanziarie con cui siamo costretti a confrontarci dal 1992. Ovvero da quando, caduta la Prima Repubblica, l’Italia ha capito che la coperta si era fatta improvvisamente corta. Un conto salatissimo che da allora grava soprattutto sui più giovani, come ha raccontato nel libro dal titolo “I figli del debito. Come i nostri padri ci hanno rubato il futuro” (Edizioni Piemme) il giornalista di Mediaset e conduttore di Mattino 5 su Canale 5 Francesco Vecchi. “Noi siamo i figli del debito, siamo la Debt Generation, siamo quelli che hanno dovuto cominciare a restituire i soldi, quelli a cui hanno lasciato in eredità la bancarotta“, ha scritto Vecchi nel primo capitolo simbolicamente intitolato “Ci hanno fregato“. Il ritratto di una generazione arrabbiata con la politica, un viaggio alla radice economica del malessere e delle frustrazioni di chi ha cominciato a lavorare e ad affacciarsi alla vita pubblica dalla metà degli anni ’90 in poi, ed è arrivato quando i cordoni della borsa erano ormai chiusi. E che si trova sulle spalle un debito gigantesco ereditato dalle generazioni precedenti.

Dunque nessuna nostalgia per i bei tempi andati, giusto?

Capisco benissimo che vi possa essere un sentimento di questo tipo verso la Prima Repubblica. C’è la diffusa percezione, e forse è davvero così, che gli anni della cosiddetta Milano da bere fossero più felici degli attuali. Peccato, però, che fossero drogati dall’iniezione continua di debito. Di soldi prodotti non dal lavoro ma da un prestito contratto con le generazioni future, che ora si trovano a pagare il conto. Siamo zavorrati dal peso del passato. Certo che si stava meglio prima, ma a quale prezzo.

Quello di un debito pubblico enorme, appunto. Siamo preparati a ripagarlo a suo avviso?

Purtroppo molto spesso in Italia ciò che è pubblico non è di nessuno. E lo stesso vale pure per il debito. Il libro cerca di far capire che, invece, non è così. Il debito è di tutti noi. Ma veramente.

E soprattutto dei più giovani. Secondo lei, ne sono consapevoli?

Questa generazione ha certamente capito che la pacchia è finita. Però non sono affatto sicuro che abbia la consapevolezza di cos’è veramente successo ai suoi danni.

Il tutto, peraltro, in un Paese – l’Italia – che è sempre più vecchio. Con quali conseguenze anche sulle politiche che vengono promosse?

I recenti dati Istat confermano che il Paese non fa più figli e, di conseguenza, pure il peso elettorale è diventato molto più sproporzionato. I giovani sono sotto rappresentati e la politica ha sempre meno interesse a prendere le loro difese. In questo senso la consapevolezza aiuta ma non basta.

Cos’altro occorre?

Bisognerebbe approntare meccanismi difensivi a favore dei giovani, un po’ come avviene per le minoranze etniche o linguistiche. Un sistema di pesi e contrappesi per evitare che le decisioni della maggioranza vadano sempre e comunque a danneggiare la minoranza. Mi riferisco, ad esempio, a Quota 100 che dovrebbe essere considerato incostituzionale perché danneggia evidentemente i più giovani.

Però i provvedimenti sulle pensioni portano più voti e la politica inevitabilmente è in primis interessata ai consensi. Come se ne esce?

E’ legittimo e naturale che i partiti facciano a gara per andare a vincere le elezioni, ma nel nostro Paese ci sono intelligenze a sufficienza per creare i meccanismi difensivi di cui parlavo. Se oggi un politico si trova nella condizione di poter spendere un euro in più per alzare da subito l’ammontare delle pensioni oppure per realizzare un ponte che con ogni probabilità sarà pronto tra almeno dieci anni, sulla base di una valutazione fondata unicamente sul consenso non avrà dubbi su quale scelta adottare: alzerà le pensioni

E allora cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo intervenire su questo, fare in modo che anche per i politici sia più utile e interessante costruire il ponte. Questo vuol dire che dobbiamo intervenire sulle regole di contabilità in modo da rendere conveniente anche in termini di consenso la realizzazione di quella infrastruttura.

E così l’Italia sembra ormai sempre più incapace di pianificare il suo futuro di medio-lungo termine: le principali misure adottate hanno spesso un forte carattere elettorale. Tutto questo quanto danneggia le giovani generazioni?

Tantissimo e la vicenda della scuola nel nostro Paese lo conferma. Negli anni del bengodi la spesa per le pensioni è cresciuta enormemente e anche quella per l’istruzione è aumentata seppur in misura inferiore. Poi – da quando nel 1992 sono stati chiusi i rubinetti – il valore delle pensioni ha continuato a crescere lo stesso mentre gli investimenti sulla scuola sono precipitati. Il primo taglio ha colpito l’istruzione, il nostro futuro.

Ma l’Italia non è il Paese della solidarietà intergenerazionale in cui i genitori e i nonni sostengono economicamente i figli e i nipoti fino a tarda età?

E’ un circolo perverso, non si possono tenere alte le pensioni in modo che i familiari più anziani possano aiutare i più giovani. I giovani oggi hanno lo stesso diritto all’autonomia e a vedersi riconosciuto il frutto del proprio lavoro che avevano le generazioni del passato.

Come vorresti che la nostra generazione fosse ricordata tra qualche decennio dai giovani del futuro?

Come una generazione equa, giusta. Sicuramente dal punto di vista delle pensioni, quantomeno, non peseremo sulla prossima.

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Segretario generale dell'Istituto per la Competitività (I-Com), con delega alla comunicazione e alle relazioni esterne. Classe 1984, giornalista a tempo pieno dal 2005 e professionista dal 2008. Andrea Picardi ha a lungo lavorato in televisione: prima come redattore del telegiornale e conduttore di trasmissioni di approfondimento presso l’emittente televisiva T9 e poi al Tg5. Prima di sbarcare in I-Com, Picardi ha lavorato presso il giornale online Formiche.net, dove tuttora collabora, come redattore e poi anche come direttore responsabile. Esperto di appalti, edilizia e servizi pubblici locali, collabora su questi temi per alcune riviste specializzate

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