Già il 4 marzo 2020, su Repubblica compariva un’intervista all’economista Nassim Nicholas Taleb, ilcreatore del termine che descrive un evento “inatteso che travolge tutti e tutto cambiando la storia” e le sue conseguenze – il cosiddetto “cigno nero” – nel quale si spiegava che il coronavirus non ha le caratteristiche per essere considerato come tale. Alla pandemia generata dal Covid – 19 manca difatti un elemento essenziale per essere considerata come un cigno nero: l’imprevedibilità. Già da tempo, infatti, la comunità scientifica internazionale avvertiva il rischio di un evento epidemico globale e invitava gli Stati e i sistemi sanitari di tutto il mondo a prepararsi per rispondere in maniera efficace.
Nel mese di settembre 2019, a due mesi dalla prima identificazione del nuovo coronavirus, gli esperti del Global Preparedness Monitoring Board (GPMB), organismo indipendente creato in risposta alle raccomandazioni della Task Force delle Nazioni Unite Global Health Crises (2017), convocato dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal Gruppo della Banca mondiale e lanciato ufficialmente a maggio 2018, avvisavano che il mondo non era preparato ad affrontare il rischio (sanitario ed economico) di un virus pandemico.
Nell’approfondito rapporto “World at risk” si legge che, anche se le malattie hanno sempre fatto parte dell’esperienza umana, una combinazione di dinamiche globali ne ha aumentato esponenzialmente i rischi di diffusione. Tra il 2011 e il 2018 l’OMS ha monitorato 1483 eventi epidemici in 172 paesi. Malattie atte a diventare epidemiche, quali l’influenza, la sindrome acuta delle vie respiratorie (SARS), la sindrome respiratoria mediorientale (MERS), Ebola, Zika, la peste, la febbre gialla e altri, sono da considerare secondo gli esperti premonitori di una era in cui focolai a rapida diffusione si rileveranno sempre più frequentemente e saranno più difficili da gestire. Nel rapporto, un planisfero mostra la diffusione globale dei maggiori agenti patogeni selezionati negli ultimi 50 anni, inclusi quelli che emergono e riemergono naturalmente e quelli che vengono rilasciati deliberatamente.
Nel 1918 l’epidemia globale di influenza ha colpito 1/3 della popolazione mondiale e ucciso fino a 50 milioni di persone: il 2,8% della popolazione dell’epoca. Se un contagio di tale portata si verificasse oggi con una popolazione quattro volte più numerosa unitamente alla possibilità di spostarsi in qualsiasi parte del mondo in meno di 36 ore, i decessi potrebbero arrivare a 50-80 milioni di persone, creando panico, destabilizzando la sicurezza nazionale e con un grave impatto sull’economia e sul commercio mondiale. Partendo dal presupposto che ciò che è successo in passato è un assaggio e un avvertimento di ciò che potrebbe avvenire in futuro gli esperti avvisavano quindi dell’esistenza di una reale minaccia pandemica che avrebbe potuto portare a una perdita pari al 5% del Pil mondiale.
Nel rapporto il Global Preparedness Monitoring Board (GPMB) scatta una fotografia della capacità del mondo di prevenire e contenere una minaccia per la salute globale, sulla base dello stato di attuazione delle raccomandazioni provenienti dai panel internazionali di esperti che erano state fatte a seguito dell’epidemia di influenza H1N1 nel 2009 e dell’ebola nel biennio 2014-2016. Molte delle raccomandazioni sono state attuate in modo inadeguato o non attuate affatto con gravi lacune a livello di regolamentazione nazionale e internazionale: si agisce intensificando gli sforzi quando c’è una grave minaccia in atto e ce se ne dimentica rapidamente non appena il momento è passato. Nel rapporto l’appello era chiaro: “È già tardi per agire. La fiducia nelle istituzioni si sta erodendo. Governi, scienziati, media, sanità pubblica, sistemi sanitari ed operatori sanitari in molti paesi stanno affrontando una crisi della fiducia pubblica che sta minacciando la loro capacità di funzionare efficacemente. La situazione è esacerbata dalla disinformazione che può ostacolare la capacità di controllo della diffusione delle malattie […] I capi di governo di ogni paese devono impegnarsi attuando i loro obblighi vincolanti sotto l’International Health Regulation (2005). Devono dare priorità e dedicare risorse interne e quote di spesa corrente alla preparazione per le emergenze sanitarie globali, rendendole parte integrante dei programmi di sicurezza nazionale e mondiale e del finanziamento della copertura sanitaria universale […]“.
Secondo il Global Health Security index, l’Italia è 31 esima in classifica per capacità di gestire una minaccia pandemica come quella che stiamo vivendo. Su un totale 195 Paesi che aderiscono al regolamento sanitario internazionale. Le categorie che fanno parte dell’elaborazione dell’indice sono: la capacità di prevenire, la capacità di riconoscere e monitorare sviluppi epidemici di potenziale rischio a livello internazionale, la capacità di rispondere rapidamente per il contenimento della diffusione, la solidità del sistema sanitario, il rispetto delle norme internazionali, il grado di vulnerabilità del Paese alle minacce biologiche. In cuor nostro, nel mondo, dobbiamo allora tutti sapere che sarebbe stato possibile intervenire prima che l’epidemia cinese di coronavirus diventasse pandemia.
Riconoscere i nostri errori, le nostre mancanze, il nostro egoismo, che cresce al crescere della globalizzazione, invece di ridursi e nonostante le molteplici adesioni, firme e sottoscrizioni a organizzazioni e istituzioni internazionali che dovrebbero consentirci di agire in modo compatto e coerente, a tutela del mondo in cui viviamo. In cuor nostro, in Italia, dobbiamo sapere che lo stato in cui versa oggi la sanità italiana non è unicamente il risultato dell’emergenza che stiamo vivendo. Ma è figlio della crisi strutturale del sistema e delle scelte di finanza pubblica fatte sino ad oggi per un servizio sanitario considerato comunque uno dei migliori del mondo. Secondo la Fondazione Gimbe la maggior parte dei tagli alla sanità è avvenuto tra il 2010 e il 2015 e si è ripercosso sulla disponibilità e sulllo stato di ammodernamento delle apparecchiature e sul personale dipendente. Quello stesso personale dipendente che oggi definiamo giustamente eroico: secondo i dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dall’inizio dell’epidemia sono 4.824 i professionisti sanitari che hanno contratto un’infezione da coronavirus, il 9% del totale delle persone contagiate.
Ricerca avanzata e sperimentazione clinica per contrastare l’emergenza Covid 19