È stato l’automotive il primo comparto industriale a essere colpito dall’interruzione della produzione cinese dovuta alla diffusione del Covid-19. E non solo perché Wuhan, epicentro dell’epidemia, è una China’s Motor City, ossia una delle città da cui viene una porzione consistente della manifattura cinese del settore, ma anche perché è dall’Impero di Mezzo che, attraverso le catene globali del valore, si dirama una parte importante della fornitura di componentistica per l’automotive. L’industria mondiale dell’auto importa dalla Cina 35 miliardi di dollari l’anno in componenti e le maggiori case internazionali di produzione si ritrovano esposte alle vicende del gigante asiatico: Volkswagen, il primo gruppo al mondo per vendite, ha impiantato quasi il 40% della sua produzione in quel mercato. Pertanto, la pandemia si è abbattuta in maniera prepotente su un settore già provato da diversi fattori: dalla guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina alla stagnazione della domanda (tale da rallentare la crescita tedesca nell’ultimo anno), passando per l’incertezza derivante dagli obiettivi attuali e futuri sulle emissioni. Si tratta di un comparto, quello dell’automotive, che detiene una quota di commercio globale significativa (8,8%), che però è in declino.
Guardando all’Europa, tra le prime case di produzione a chiudere gli impianti troviamo FCA, che ha decretato una sospensione delle attività produttive europee fino al 27 marzo, scadenza poi prorogata al 3 aprile e infine al 13. Si sono fermati, pertanto, gli stabilimenti italiani di Melfi, Pomigliano, Cassino, Carrozzerie Mirafiori, Grugliasco e Modena, oltre all’impianto serbo di Kragujevac e a quello polacco di Tychy. Si tratta di misure che consentono di rispondere al calo della domanda di mercato, di ottimizzare le forniture e di limitare le occasioni di contagio tra i lavoratori. A seguire la scelta di FCA è stato subito il gruppo PSA e a ruota Ford, Mercedes-Daimler e Volvo. Volkswagen, Volvo e Jaguar Land Rover hanno disposto la chiusura degli stabilimenti europei, ma contestualmente hanno avviato la riapertura degli impianti in Cina. Non è rimasto senza riscontro, pertanto, l’appello di Anfia, l’Associazione italiana della filiera dell’industria automobilistica, che, in seguito al blocco annunciato da FCA sugli stabilimenti italiani, chiedeva misure conseguenti da parte dei governi francese e tedesco, temendo una perdita di terreno dell’industria italiana rispetto alle concorrenti. Germania e Francia costituiscono il primo e il secondo Paese di destinazione della componentistica automotive italiana, con quote pari rispettivamente al 20 e all’11%. Un fermo delle attività ridotto alla Penisola avrebbe comportato una perdita di commesse estere per un settore rilevante dell’economia nazionale, come l’automotive. Si prevede, quindi, che da inizio marzo a fine aprile saranno più di 1,3 milioni i veicoli persi dalle linee di produzione, per un valore complessivo di mancati ricavi stimato in 33 miliardi di euro circa.
Mentre la Cina gradualmente riavvia i propri impianti per risolvere progressivamente le interruzioni di fornitura, il problema si sta spostando dal lato dell’offerta a quello della domanda, ora che il contagio ha ormai coinvolto i maggiori mercati automotive del mondo. Nello specifico incidono sul consumo sia le misure di lockdown sia l’incertezza sulle prospettive di reddito, che spinge a rinviare scelte importanti come l’acquisto di un’automobile. Secondo le ultime le previsioni di IHS Markit, nel 2020 le vendite globali di auto diminuiranno di oltre il 12% rispetto al 2019, attestandosi a 78,8 milioni di unità: una riduzione di 10 milioni di unità rispetto alle previsioni pre-coronavirus svolte a gennaio 2020. In particolare, la domanda europea di auto per l’anno corrente si fermerebbe a 15,6 milioni di unità, in calo del 13,6% rispetto al 2019 (-1,9 milioni di unità rispetto alle stime pre-coronavirus) e quella statunitense registrerebbe 14,4 milioni di unità, in calo del 15,3% su base annua (-2,4 milioni di unità se comparata alle previsioni di inizio anno). La stessa Cina, il più grande mercato mondiale dell’auto, risentirebbe di un calo cospicuo della domanda, il 10% su base tendenziale, pari a una previsione di vendita di veicoli di 22,4 milioni di unità.
Inevitabile l’impatto sui valori di borsa. L’Euro Stoxx Automobile & Parts, l’indice europeo di riferimento del settore della produzione delle automobili e della componentistica, tra il 21 febbraio (giorno della diagnosi del paziente uno a Codogno) e il 20 marzo ha registrato una performance negativa del 40,6%: considerando i 13 maggiori titoli del listino, sono stati bruciati circa 150 miliardi di capitalizzazione. Nello specifico, FCA e Renault hanno perso il 49%, Continental il 48, Porsche il 46,9, Daimler il 46,8, Volskwagen il 43,3 e PSA il 40,9. Diverse, inoltre, sono le case di produzione alla ricerca di linee di credito aggiuntive (FCA ne ha sottoscritta una da 3,5 miliardi) mentre Moody’s ha posto il rating di sette società sotto la procedura di riesame per il downgrade. Si considerano altresì gravi rischi occupazionali, per un settore che nell’Unione europea impiega direttamente 2,6 milioni di persone, che diventano quasi 14 milioni se si considera tutta la catena di fornitura nell’Ue.
E nel nostro Paese? In Italia le esportazioni di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi rappresentano l’8% dell’export (quasi il 3% di quello globale) e il 7% della produzione industriale. Si tratta, in più, di un’integrazione significativa della filiera italiana dell’automotive nelle global value chain: la componente estera del valore aggiunto incorporato nelle esportazioni è andata gradualmente crescendo negli ultimi anni attestandosi al 35%. Tuttavia, la domanda interna non brilla, come in quasi tutti gli Stati membri dell’Unione. Secondo i dati del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, a gennaio si sono registrate 155.528 immatricolazioni, con una frenata tendenziale del 5,9%. Questo calo, tuttavia, faceva seguito alla crescita in doppia cifra (+12,5%) di dicembre, quando le case di produzione hanno anticipato l’entrata in vigore delle nuove normative sulle emissioni (le Euro 6D), spingendo sul noleggio a lungo termine e sulla pratica delle auto-immatricolazioni.
Segnaliamo, inoltre, un coinvolgimento importante dell’industria dell’automotive nella produzione di dispositivi medici nella fase d’emergenza. Da FCA e Ferrari, che si sono impegnati al fianco dell’italiana Siare Engineering nella produzione di ventilatori per la respirazione assistita, a Lamborghini, che fornirà mascherine e visiere protettive al Policlinico bolognese Sant’Orsola-Malpighi. E ancora da Volkswagen e BMW, che stanno accelerando sull’utilizzo delle stampanti 3D a BYD, campione cinese dell’auto elettrica che ha riconvertito la produzione al fine di fornire 5 milioni di mascherine e 300.000 bottiglie di disinfettante al giorno, passando per Mercedes F1 che, in collaborazione con alcune università inglesi, ha progettato un dispositivo per la respirazione che potrà essere prodotto anche dagli altri team di Formula 1. Non è passato inosservato neppure l’appello via Twitter del presidente degli Stati Uniti Donald Trump alle americane Ford, General Motors e Tesla. La prima ha risposto preparandosi a garantire nel breve termine almeno 200.000 respiratori meccanici.
Rimane ancora un’incognita se le azioni della Banca centrale europea e della Federal Reserve, così come l’iniezione di risorse avviata dai più grandi Paesi del mondo, saranno in grado di riattivare la domanda di mercato. Così come andranno evase le questioni di medio-lungo periodo, a partire dalla transizione verso l’elettrico e dall’innovazione dei sistemi di mobilità. E’ lecito chiedersi se, con la flessione della domanda e il prezzo del petrolio ai minimi storici, oltre che con possibilità di bilancio più ridotte, permanga l’incentivo a investire nell’elettrificazione. Le prime avvisaglie in questo senso non mancano: Trump ha già annunciato un cospicuo abbassamento degli obiettivi di efficienza dei veicoli rispetto a quanto fissato dal suo predecessore Barack Obama. Attualmente in Cina le vendite di veicoli elettrici mostrano un calo della stessa proporzione rispetto alle auto tradizionali. Allo stesso tempo, è utile immaginare se l’emergenza coronavirus comporterà modifiche nell’approccio delle persone al mercato dei trasporti. Si vedono già i primi segnali: la spinta alla mobilità privata, nel tentativo di evitare mezzi pubblici affollati e la sharing mobility, la diffusione di dispositivi di salubrità nei mezzi di trasporto e il potenziamento di servizi web, canali di vendita online e strumenti digitali di customer care per un settore in cui il contatto fisico con il prodotto da acquistare risulta per i più fondamentale.