In questi giorni si sta parlando sempre con maggiore frequenza della cosiddetta fase due, ovvero il momento in cui il nostro Paese inizierà il lungo percorso di uscita dal lockdown causato dall’epidemia di Covid-19 e sarà permesso alle attività economiche di ripartire gradualmente. In questo secondo momento dovremmo affrontare, oltre alle problematiche sanitarie, le conseguenze della pandemia sul nostro tessuto economico.
Uno dei problemi principali che rischia di mettere in seria difficoltà la già dura ripartenza delle aziende italiane (e non solo) è l’interruzione delle supply chain. Le catene del valore della maggior parte dei settori industriali sono ormai integrate globalmente. Questo significa che anche se un’azienda avesse il via libera per tornare a produrre, potrebbe faticare a reperire dai propri partner dislocati in altri Paesi le raw materials, ossia le materie prime da trasformare in prodotto finito.
Si tratta di un fenomeno che non è del tutto nuovo. La chiusura delle fabbriche cinesi nelle prime fasi dell’epidemia, ce lo ha fatto già conoscere da vicino. La Cina è il principale fornitore di buona parte delle filiere industriali italiane come quella della meccanica, della chimica, quella tessile. Ma anche l’high tech e l’automotive. La provincia di Hubei è uno dei maggiori centri di produzione di componentistica e di assemblaggio di automobili. Wuhan, la città dove ha avuto inizio la pandemia di Covid-19, ospita numerose sedi di multinazionali del settore tra cui Dongfeng, Honda Motor company, Psa Group, General Motors, Bosch e l’italiana Magneti Marelli. Uno studio di Ihs Markit aveva previsto per l’anno in corso nel solo parco industriale di Wuhan una produzione di 1,6 milioni di veicoli.
Le buone notizie provenienti dalla Cina fanno sperare in una rapida riapertura dei flussi commerciali ma, in un orizzonte temporale più lungo, è necessario ripensare ai nostri meccanismi di approvvigionamento delle materie prime. Questa crisi ha messo in luce la fragilità del sistema e le debolezze dell’approccio just-in-time che riduce al minimo sia l’accumulo di materie prime che di prodotti finiti in giacenza. Ciò non significa che sarà necessario tornare ad accumulare scorte in vista di una possibile crisi futura. Piuttosto ripensare alla catena del valore identificando alternative immediatamente attuabili in caso di bisogno o modelli di smart factory.
Nell’attesa di poter riprogrammare le catene del valore è però necessario trovare le armi giuste per affrontare le difficoltà e le sfide che ci attendono nei prossimi mesi. Secondo l’articolo dal titolo “Supply-chain recovery in coronavirus times — plan for now and the future” realizzato dagli analisti di McKinsey, le azioni da intraprendere per mitigare l’impatto del coronavirus sulle supply chain sono sei: prima di tutto, creare trasparenza sulle catene di approvvigionamento, identificando fonti alternative per la fornitura di componenti critici. In secondo luogo, si dovranno stimare le scorte disponibili lungo l’intera catena del valore, compresi i pezzi di ricambio e quelle scorte post-vendita, da utilizzare come ponte per mantenere attiva la produzione. Sarà poi utile valutare la domanda realistica del cliente finale come pure ottimizzare la capacità di produzione e distribuzione per garantire la sicurezza dei dipendenti, ad esempio fornendo dispositivi di protezione individuale. Infine, individuare e proteggere la capacità logistica e, ove possibile, essere flessibili sulla modalità di trasporto. Il tutto attraverso una gestione della liquidità e del capitale circolante netto eseguendo stress test per capire dove problemi alla catena di fornitura potrebbero causare un impatto finanziaro.