La Pasqua ha portato la pace nel mercato del petrolio, da un mese agitato da un gioco al massacro, che sul campo avrebbe lasciato pochi vincitori, forse nessuno. Sicuramente non gli Stati Uniti d’America, la cui industria dello shale risulta già provata da settimane di prezzi del barile troppo bassi da consentire la prosecuzione dei propri piani di investimento. Si riscontrano aziende dello scisto insolventi o finite in amministrazione controllata e numerose società del settore sono state costrette a tagliare la produzione.
Dall’esigenza di sostenere il comparto deriva il protagonismo di Donald Trump, il principale fautore della necessità che i grandi produttori di petrolio trovassero un’intesa e attivissimo in dichiarazioni mirabolanti (ha parlato di taglio di 30 milioni di barili al giorno e preconizzato l’accordo già diverse settimane fa), nel tentativo di rassicurare i mercati sulla ripresa dei prezzi. Difficilmente poteva risultare vincitrice la Russia, costretta a interrompere anni di accumulazione di riserve auree (raddoppiate negli ultimi 5 anni) al fine di mantenere in bilancio risorse utili per riparare agli ammanchi delle entrate dagli idrocarburi. Criticità riguardavano anche i Paesi OPEC, fortemente dipendenti dalla rendita petrolifera e costretti a praticare sconti di listino per conservare le proprie quote di mercato. Diverse problematicità vengono registrate anche dagli Stati europei, ad esempio in relazione ai cali in borsa sofferti dalle proprie multinazionali del comparto Oil & Gas. Ne ha approfittato il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, che ha acquistato partecipazioni per 1 miliardo di euro in quattro compagnie europee: Total, Royal Dutch Shell, Equinor e l’italiana Eni. Ciononostante, neanche l’Arabia Saudita poteva gioire. L’aumento della produzione, fino a raggiungere il record storico di 12 milioni di barili al giorno, mal si conciliava con il drastico calo della domanda globale di petrolio.
Le misure di lockdown disposte per contrastare il coronavirus, il fermo alle attività produttive e lo stallo del sistema dei trasporti hanno ridotto la domanda per il mese di aprile di 29 milioni di barili al giorno rispetto allo stesso mese dello scorso anno riportandola a livelli registrati l’ultima volta nel 1995. A causa di questo crollo del consumo, si sono affacciati sul mercato prezzi negativi. In assenza di domanda e con costi di stoccaggio elevati (dovuti anche spazi di accumulo in via di esaurimento), i produttori si trovano costretti a pagare i compratori per l’acquisto del petrolio. Si tratta di una possibilità teorica, quella effettiva e praticata implica l’uscita dal mercato di numerosi operatori.
Pertanto, nel fine settimana pasquale, videoconferenze che da un capo all’altro del pianeta hanno riunito i Paesi Opec+, poi gli Stati del G20 hanno perfezionato e siglato un’intesa, nelle corde da giorni, che stabilisce un taglio di 9,7 milioni di barili al giorno (approssimativamente il 10% dell’output globale), che andrà gradualmente a restringersi nell’arco di un anno (7,7 mbg dal 1° luglio e 5,8 mbg dal 1° gennaio 2021 al 30 aprile 2022). A farsi carico del contenimento della produzione, saranno principalmente Mosca e Riad, che garantiranno per metà del taglio, in parti uguali. Gli altri Paesi dovranno diminuire le proprie forniture in proporzione all’output (nello specifico, il 23% rispetto al livello di ottobre 2018). Fa eccezione (oltre a Venezuela, Iran e Libia, che sono esenti) il Messico, che ha minacciato di deviare dall’intesa e, grazie al sostegno di Trump, dovrà limitarsi a ridurre la produzione di 100mila mbg, anziché 400mila. I restanti sono posti in capo agli USA, che, più che ridurre di imperio l’output, probabilmente danno per scontato che saranno le forze di mercato, visti i prezzi troppo bassi, a condurre a una flessione delle proprie attività, come già sta succedendo.
Tuttavia, la reazione della borse, a questo che pure è un taglio alla produzione di importanza finora sconosciuta, non è stata quella attesa. La ripresa delle quotazioni del barile non ha determinato il decollo che tanti osservatori attendevano, né il mercato pare essersi stabilizzato. Rimane evidente, pertanto, lo scetticismo dei mercati, segnati probabilmente da incertezze sulla tenuta e l’attuazione dell’accordo raggiunto. Si nota, inoltre, la freddezza dei Paesi consumatori a cui viene richiesto di collaborare a ridurre l’eccesso di offerta, accumulando scorte: gli Stati Ue e il Giappone non sembrano disposti a muoversi in questa direzione. Ciononostante, a pesare come un macigno sono soprattutto le prospettive della domanda di petrolio: per il 2020, l’Iea stima un calo del 10% rispetto al 2019. In queste condizioni, appare arduo individuare un’intesa che possa contenere l’offerta in misura tale da compensare questo calo della domanda.