Secondo Asstra, l’associazione che rappresenta le aziende di trasporto locale, applicare nella fase 2 dell’emergenza Covid-19 le regole del distanziamento sociale comporterà una riduzione della capacità dei mezzi pubblici (autobus, metro, treni regionali) tra il 50 e il 70%. Il comune di Milano calcola che rispetto agli 1,5 milioni di passeggeri giornalieri la metropolitana potrà accoglierne poco meno di un quarto (400.000). Numeri che con qualche esperienza aneddotica rispetto all’affollamento che si può osservare negli orari di punta in alcune grandi città potrebbero rivelarsi perfino ottimistici.
Di fronte a una prospettiva di questo tipo, tre sono le soluzioni possibili per evitare una ripartenza da incubo, con masse enormi di persone che stazionano sulle banchine in attesa del primo convoglio, autobus o tram utile oppure, peggio ancora, spinti dalla necessità del momento, che si assumono il rischio di violare il distanziamento minimo, che lo ricordiamo è lo strumento più efficace di contenimento del contagio che abbiamo attualmente a disposizione. E d’altronde lasciare l’onere del rispetto delle regole solo all’enforcement delle aziende di trasporto potrebbe essere oltre che ingiusto (e oneroso) anche inefficace. Risultando ad esempio in un semplice spostamento all’esterno degli assembramenti, senza eliminare il rischio che essi comportano, insieme a un aumento significativo dei tempi di attesa. Allo stesso tempo, il rifugio nella mobilità privata rischia di avere un impatto altissimo sul traffico e sull’ambiente, con costi sociali enormi. Pensiamo, con un modesto ritorno al passato (meno di due mesi fa), alle code infinite alle porte delle nostre città o ai valori sopra la norma delle polveri sottili e di altre sostanze inquinanti che facevano delle città della Pianura Padana un unicum in Europa (e che secondo alcuni studi, in verità del tutto preliminari e da prendere con le necessarie cautele, potrebbero in parte spiegare gli effetti catastrofici del Covid-19 proprio nel Nord Italia, Lombardia in testa). Insomma, dalla padella alla brace.
Tra i tre principali strumenti di policy a disposizione, il primo è naturalmente quello di aumentare le forme di incentivo (economico e non) destinate alla mobilità sostenibile, dalle biciclette a pedalata assistita (o tradizionali) ai monopattini o quantomeno veicoli a quattro e a due ruote con standard ambientali elevati. Se togliamo però le modalità a più basso costo, appare difficile immaginare che in un periodo altamente incerto e di fortissima crisi economica come l’attuale (e ancora di più quello che verrà nei prossimi mesi) questo primo set di strumenti possa essere risolutivo, spingendo all’acquisto di veicoli in media più costosi rispetto all’offerta tradizionale. Anche perché provvedimenti di questo tipo avrebbero grandi benefici di certo sull’inquinamento, molto meno sulla congestione (tenendo presente anche che, almeno nell’immediato, la domanda di mobilità condivisa, dal car pooling al ride sharing, sarà fortemente penalizzata, a favore di quella individuale).
Rimangono dunque due altri strumenti principali, la spalmatura degli orari di spostamento, in base a una riorganizzazione dei tempi lavorativi e delle scuole, e il ricorso allo smart working e all’e-learning.
Certamente ridurre i picchi di traffico può offrire un contributo. Che tuttavia non può essere sovrastimato. Per due motivi in particolare. Innanzitutto, in alcune città il livello di traffico è ormai costantemente elevato, quantomeno tra inizio mattinata e prima serata, con pochi margini di incremento ulteriore. A meno di non pensare a un utilizzo integrale delle 24 ore a disposizione, eventualità evidentemente non sostenibile. Inoltre, all’interno delle famiglie, gli spostamenti pre-Covid-19 erano comunque già ottimizzati. Allineando ad esempio gli orari di ingresso in ufficio con l’accompagnamento a scuola dei figli. Disallineare queste tempistiche potrebbe portare a un incremento degli spostamenti totali e dunque a un aggravamento del problema. Inoltre, per molti datori di lavoro non ha senso far lavorare i propri dipendenti in orari sfalsati. Così come un’apertura pomeridiana delle scuole rappresenta un costo (pensiamo solo ai bidelli in più che saranno necessari) di cui occorre tenere conto.
Per questo, il ruolo del lavoro e della scuola a distanza appare fondamentale per tornare a una quasi normalità economica e sociale. Che non sostituisca del tutto la presenza fisica (almeno laddove non è possibile, come nelle scuole primarie o in uffici aperti al pubblico) ma la integri flessibilmente. Prevedendo forme di rotazione della presenza fisica di lavoratori e studenti e permettendo agli altri di partecipare a distanza (naturalmente chiedendo uno sforzo ancora maggiore alle organizzazioni che possono continuare ad operare pienamente da casa). Lasciando la dovuta flessibilità per allineare le esigenze di genitori e figli o quella di datori di lavoro e collaboratori.
Per minimizzare il rischio di ulteriori ondate di contagio, è utile se non necessario che chi può impiegare modalità di lavoro o di studio a distanza lo faccia il più possibile, per consentire a chi non può farlo di continuare le proprie attività, senza essere costretto a fermarsi. Una forma di solidarietà che permetterebbe di aggiungere un ulteriore spazio di manovra a un Paese che ha urgenza di ripartire al meglio, a partire da un nuovo senso di comunità. Facendo fare significativi passi in avanti alla trasformazione digitale della nostra società, il primo ingrediente di cui l’Italia ha bisogno per cogliere la sfida della modernità. E poter ripartire con slancio nella prossima fase che ci attende.
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