Nel primo trimestre del 2020 hanno chiuso i battenti in Italia 30.000 imprese, contro le 21.000 unità dello stesso periodo dell’anno precedente. Una variazione determinata anche dall’emergenza sanitaria e dal lockdown visto che il terzo mese del trimestre considerato, e cioè marzo, è stato di obbligata inoperosità per le nostre aziende.
I dati pubblicati da Unioncamere-InfoCamere sul bilancio della mortalità delle imprese sottolineano come il saldo in questo arco temporale sia il peggiore degli ultimi 7 anni. Solo nel 2013 – al culmine della crisi – era stata registrata una variazione simile, di circa 31.000 unità in meno. Queste rilevazioni suggeriscono come la straordinarietà della crisi sanitaria stia influenzando in maniera significativa l’andamento dell’economia reale, sebbene l’arco temporale che va da gennaio a marzo registri quasi ogni anno un tasso di crescita negativo. In generale infatti, questo è spesso caratterizzato da tassi di cessazione superiori a quelli di iscrizione a causa delle chiusure aziendali comunicate sul finire dell’anno precedente. Ulteriore fattore di influenza sui dati potrebbe essere il rallentamento dei processi amministrativi e la sospensione delle procedure concorsuali. Nonostante questi caveat, sembra che il Covid-19 stia effettivamente ponendo un freno alla crescita nazionale.
L’andamento negativo si riflette su tutti gli aspetti dell’imprenditorialità, siano giuridici, territoriali e settoriali. Tuttavia, alcune dinamiche specifiche sono degne di nota. Differenziando le unità per forma giuridica, le imprese individuali sono le più svantaggiate con un tasso di decrescita nel primo trimestre 2020 del -1,02%, contro il -0,84% del 2019. Al contrario le società di capitali crescono dello +0,60%, risultato positivo seppure minore del corrispettivo dell’anno precedente (+0,81%).
Per quanto riguarda le circoscrizioni geografiche, delle 30.000 imprese in meno, circa 9.000 rappresentano il saldo negativo del Nord-Ovest, 8.200 il Nord-Est, 4.500 il Centro e 8.400 Sud e Isole. Le regioni più colpite da questa tendenza al ribasso sono il Molise, la Valle d’Aosta, le Marche, il Piemonte e il Friuli-Venezia Giulia, tutte con un tasso di crescita inferiore al -0,80%. Solo il Lazio chiude il semestre con un tasso di crescita pressoché nullo.
Inoltre, come spesso accade, non tutti i settori della produzione sono stati colpiti allo stesso modo dalla crisi. In particolare, il commercio è il settore più colpito, con circa 16.000 imprese in meno e un passo indietro pari -1,06%, seguito da agricoltura silvicoltura e pesca (-0,98%) e le attività manifatturiere (-0,67%). Al contrario, risulta in aumento il numero di imprese che si occupano di fornitura di energia elettrica gas e vapore (+0,79%), il settore sanitario e assistenziale (+0,24%) e le attività professionali, scientifiche e tecniche (+0,12%).
La chiusura delle attività produttive si ripercuote sul mercato del lavoro e il quadro che ne emerge non è rincuorante. Secondo un’analisi della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro 3,7 milioni di lavoratori hanno visto venir meno l’unica fonte di reddito familiare a causa delle restrizioni da Covid-19. Inoltre, quasi la metà dei lavoratori nei settori bloccati dalla pandemia guadagna meno di 1.250 euro al mese.
Tuttavia, per riuscire a delineare con maggiore precisione gli effetti che il coronavirus avrà sulle dinamiche di crescita, occorre osservarne le evoluzioni nella fase di ripresa. In questa ottica, la cosiddetta fase 2 rappresenta un punto di svolta critico.