Lavoro, come cambia in Europa tra automazione e Covid-19


Articolo
Michele Masulli
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Credit: Pixabay

Il lavoro cambia per organizzazione, funzioni, mansioni e competenze richieste. Lo sviluppo delle potenzialità delle tecnologie digitali, i processi di esternalizzazione e delocalizzazione, la frammentazione delle catene produttive, l’integrazione tra manifattura e servizi sono alcuni tra i driver principali del cambiamento, da anni oggetto di analisi da parte degli esperti. A questi si aggiunge la pandemia Covid-19, l’impatto diversificato che avrà sui settori produttivi e la capacità di orientare le scelte delle imprese e dei consumatori. È legittimo, pertanto, chiedersi quale sarà il futuro del lavoro, quali le figure professionali e i settori che più saranno interessati dalla trasformazione in corso e i territori meglio in grado di intercettarne i benefici.

In questo ambito, almeno da quando i robot hanno iniziato a sperimentare avanzamenti consistenti, lo spettro che si aggira tra i lavoratori del mondo si chiama automazione. Già nel 2013, Frey e Osborne stimavano che per il 47% dei lavoratori americani era elevata la probabilità di essere sostituiti nelle proprie funzioni dalle macchine nei successivi venti anni. La stessa percentuale veniva individuata da uno studio condotto dall’OCSE nel 2018 per i Paesi membri dell’organizzazione.

A essere a rischio automatizzazione, inoltre, non sarebbero soltanto le mansioni meno specializzate, come spesso si pensa, ma anche le funzioni di medio-alto livello: dai professionisti del campo sanitario, per cui la probabilità di essere sostituiti sarebbe del 45%, al settore amministrativo e aziendale (43%), passando per le scienze e l’ingegneria (40%). Per Acemoglu e Autor sarebbe la ripetitività il parametro fondamentale su cui misurare le possibilità di automatizzazione, più che i caratteri di manualità della funzione. Anche le professioni cognitive, se ripetitive, presentano rischi di sostituibilità.

Come ha ricordato il presidente I-Com Stefano da Empoli nel suo libro “Intelligenza artificiale: ultima chiamata. Il Sistema Italia alla prova del futuro” (Bocconi editore), anche in campi usualmente associati alle forme più alte di creatività, dalla poesia alla musica, dal giornalismo all’arte, l’intelligenza artificiale, unita alla capacità di elaborare quantità notevoli di dati, sta compiendo progressi da gigante. La letteratura su questi temi si va facendo sempre più ampia, così come i quesiti al centro delle ricerche degli studiosi. C’è chi si chiede, ad esempio, quale sarà il saldo dei fenomeni in corso sul mercato del lavoro, se l’occupazione diminuirà oppure se le tecnologie digitali creeranno nuove possibilità di impiego e supporteranno nuove specializzazioni e funzioni inedite, con un effetto complessivo positivo. Altri si domandano quali saranno le conseguenze sui livelli salariali, in particolare per i profili professionali maggiormente sostituibili.

Una fotografia recente dei trend in atto nel mercato del lavoro nell’Unione europea, scattata tenendo conto altresì della crisi in corso, è quella fornita da McKinsey. Secondo la società di consulenza americana, il 22% delle attuali posizioni di lavoro, corrispondenti a 53 milioni di occupati, potrebbe essere automatizzato entro il 2030. Allo stesso tempo, la popolazione europea in età da lavoro dovrebbe ridursi del 4% (13,5 milioni), in misura consistente soprattutto in Germania, Italia e Polonia, causando una carenza di offerta di lavoratori qualificati. Nel complesso, più della metà della forza lavoro del Vecchio continente dovrà affrontare trasformazioni significative. L’automazione richiederà l’acquisizione di nuove competenze: 94 milioni di lavoratori circa potrebbero non aver bisogno di cambiare professione, ma dovranno seguire percorsi di formazione, in quanto già oggi buona parte delle loro attività richiede l’utilizzo di tecnologie avanzate. Altri, impiegati in funzioni destinate a scomparire, potranno trovare lavoro in impieghi simili mentre per 21 milioni di persone potrebbe essere necessario cambiare professione entro il 2030.

Agli effetti di spiazzamento dovuti all’avanzare dell’automazione vanno aggiunti i fattori di rischio legati al Covid-19. Alcuni settori produttivi in particolare si trovano esposti su entrambi i fronti e sono quelli, pertanto, più passibili di subire una riduzione dell’occupazione. Si pensi al commercio, alle strutture ricettive e alla ristorazione. In generale, i profili professionali che più cresceranno da qui al 2030 saranno quelli delle discipline scientifico-tecnologiche, i cosiddetti “STEM” (+4 milioni), i professionisti degli affari e legali (+3,9 milioni) e gli addetti del mondo della salute e del benessere (+2,9 milioni). In declino, invece, sono le funzioni di supporto amministrativo (-5 milioni), i lavoratori del manifatturiero (-4,5 milioni) e gli addetti alle vendite e ai servizi al cliente (-1,4 milioni).

McKinsey, tuttavia, descrive anche un processo di polarizzazione nella geografia del mercato del lavoro dell’Unione europea. Vengono individuate 48 città, dove risiede il 20% della popolazione europea e il 21% degli occupati, che dal 2007 hanno generato il 43% della crescita del Pil europeo, il 35% della crescita occupazionale netta e il 40 dell’aumento della popolazione, soprattutto attraendo lavoratori da altre aree. Tra queste città, troviamo le due megacities Londra e Parigi e 46 superstar hub, nello specifico Amsterdam, Copenaghen, Madrid e Monaco, oltre alle italiane Roma e Milano (che hanno conosciuto una crescita netta degli occupati superiore al 5% dal 2007). Subito dopo, nella classificazione di McKinsey per dinamicità e prospettive di crescita, vengono scelte le economie service-based, dove l’Italia è rappresentata da Firenze, i centri di manifattura high-tech (tra gli altri, Torino, Reggio Emilia, Modena, Treviso e Vicenza), le economie “diversificate”, dove l’occupazione del manifatturiero convive con un comparto di servizi sviluppato (Bologna, Parma, Brescia e Bergamo) e i “paradisi del turismo” (Olbia, Grosseto, Venezia e le province liguri).

Meno felice, per McKinsey, è la ristrutturazione dell’impresa e del mercato del lavoro per le province meridionali. In particolare, alle maggiori realtà del Sud Italia (Napoli, Palermo, Bari, Catania, Salerno) vengono imputati disoccupazione elevata, bassa qualificazione della forza lavoro, flussi di emigrazione e scarso dinamismo imprenditoriale. Nel resto del Mezzogiorno, inoltre, si nota l’elevata quota di occupati nella pubblica amministrazione, nella sanità e nell’istruzione, tali da farne per McKinsey delle public sector–led regions. Come tutte le classificazioni, per di più compiute su base europea, probabilmente non tengono conto di elementi di dinamismo, fattori caratterizzanti e potenzialità in cui si articola il sistema economico italiano. Tuttavia, ne colgono le dimensioni principali e, per quanto riguarda almeno metà dell’Italia, non possono non far scattare un campanello di allarme.

Ricopre attualmente il ruolo di Direttore dell’area Energia presso l’Istituto per la Competitività (I-Com), dove è stato Research Fellow a partire dal 2017. Laureato in Economia e politica economica presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, successivamente ha conseguito un master in “Export management e sviluppo di progetti internazionali” presso la Business School del Sole24Ore. Attualmente è dottorando di Economia applicata presso il Dipartimento di Economia dell'Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa principalmente di scenari energetici e politiche di sviluppo sostenibile, oltre che di politiche industriali e internazionalizzazione di impresa.

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