Il 21 luglio, all’alba del quinto giorno di vertice, il Consiglio europeo ha raggiunto l’accordo sul Piano per la ripresa da 1.824 miliardi di euro complessivi, mettendo in scena l’ultimo e più importante atto nella costruzione di una risposta comune europea alla crisi economica scaturita dalla pandemia. L’intesa tra gli Stati membri ridisegna il Quadro finanziario pluriennale 2021-27 in linea con l’impianto proposto dalla Commissione lo scorso maggio, confermando l’inclusione del nuovo Recovery Instrument (Next Generation EU) all’interno del bilancio comune europeo. L’accordo tra i leader segna un passaggio storico per l’Unione e un successo politico sostanziale del blocco dei Paesi Sud-europei, dando il via libera alla creazione di debito comune su vasta scala e a trasferimenti netti di denaro a beneficio dei Paesi più colpiti dalla crisi. Ma rappresenta una battuta d’arresto rilevante per la definizione di un bilancio comune europeo moderno e all’altezza delle sfide dei prossimi decenni – la transizione verde e la trasformazione digitale – ben delineate nelle priorità politiche della Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Per diventare definitivo, l’accordo dovrà ottenere a stretto giro il voto di approvazione del Parlamento europeo: tutti i programmi del nuovo bilancio dovranno prendere il via il 1° gennaio 2021.
L’IMPIANTO GENERALE E IL DEBITO COMUNE
I Paesi membri hanno trovato l’intesa su un piano da 1.824 miliardi complessivi (in prezzi 2018). L’accordo fissa a 1.074 miliardi la quota del Quadro finanziario pluriennale 2021-27, ritoccando al ribasso sia la proposta della Commissione von der Leyen del 27 maggio (1.100 miliardi) sia il precedente compromesso suggerito dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel nel vertice dei leader dello scorso febbraio (1.094 miliardi). Ai 1.074 del Qfp ordinario si aggiungono i 750 miliardi del nuovo Recovery Instrument (Next Generation EU): il Consiglio ha confermato in questo caso la cifra complessiva proposta dall’esecutivo europeo, ma ne ha modicato la ripartizione tra trasferimenti a fondo perduto (grants), che sono stati ridotti dai 500 miliardi proposti da von der Leyen a 390, e prestiti (loans), che sono aumentati di conseguenza da 250 a 360 miliardi.
La modalità innovativa con cui verranno raccolti i fondi erogati da Next Generation EU rappresenta un passaggio storico per l’Unione, poiché dà il via libera per la prima volta nella storia dell’Europa unita alla creazione di debito comune su vasta scala. L’intesa raggiunta in Consiglio, costruita sulla base della proposta di Francia e Germania fatta poi propria dalla Commissione, autorizza l’esecutivo Ue a reperire i fondi prendendo denaro in prestito sui mercati finanziari per conto dell’Unione e a distribuirli in larga parte attraverso trasferimenti a fondo perduto.
I fondi raccolti saranno rimborsati dai futuri bilanci dell’Ue nell’arco di trent’anni, a partire dal 2027 e non oltre il 2058. Per facilitare il rimborso dei fondi ed evitare di gravare sui bilanci nazionali negli anni a venire, il Consiglio ha dato un sostanziale via libera all’introduzione di nuove risorse proprie. Dal 1° gennaio 2021 verrà introdotto un sistema di tassazione basato sui rifiuti di plastica non riciclati mentre, al più tardi nel 2023, dovranno diventare realtà il meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera (la cosiddetta carbon border tax) e l’imposta sul digitale per le grandi società (la Commissione dovrà formulare relative proposte nel primo semestre del prossimo anno).
Il volume complessivo del piano, la modalità di raccolta dei fondi e l’equilibrio tra sovvenzioni e prestiti rappresenta un successo politico per i Paesi del blocco Sud-europeo, che nell’arco di pochi mesi hanno visto venir meno per la prima volta la storica opposizione della Germania alla creazione di debito condiviso e piegato poi la strenua resistenza degli Stati cosiddetti frugali (Austria, Danimarca, Finlandia Paesi Bassi e Svezia) nel corso del vertice. L’esito dell’incontro segna inoltre una vittoria indubbia del presidente francese Emmanuel Macron, il cui sostegno all’emissione di titoli di debito condiviso è stato decisivo per indirizzare la partita in favore del fronte Sud-europeo, e della cancelliera Angela Merkel. Tale risultato sarebbe stato impensabile senza la svolta tedesca e la realizzazione – da parte di Merkel, nella fase conclusiva del suo cancellierato – che la stabilità e la vitalità dell’Europa unita e del mercato unico rimangono il principale interesse nazionale della Germania.
IL RECOVERY FUND E I TAGLI AI PROGRAMMI EUROPEI
L’accordo in Consiglio conferma il sostegno diretto agli Stati membri per investimenti e riforme. Ne esce rafforzato innanzitutto il nuovo dispositivo per la ripresa e la resilienza (Recovery and Resilience Facility), il Recovery Fund propriamente detto, piatto forte dell’intero piano di ripresa, che offrirà supporto finanziario diretto soprattutto ai Paesi più colpiti dalla crisi pandemica, sostenendo la trasformazione e la resilienza delle economie nazionali in linea con le priorità europee: la dotazione complessiva del dispositivo viene incrementata a 672,5 miliardi rispetto ai 560 proposti dalla Commissione a maggio (nello specifico, le sovvenzioni passano da 310 a 312,5 miliardi, i prestiti da 250 a 360). Viene preservata in larga parte (la dotazione finanziaria scende da 50 a 47,5 miliardi) la nuova iniziativa REACT-UE, che andrà ad aggiungersi agli attuali programmi della politica di coesione per mitigare le conseguenze socio-economiche della crisi.
Per il resto, l’accordo raggiunto in Consiglio restituisce un bilancio comune europeo decisamente al di sotto dell’ambizione richiesta e poco orientato ad affrontare le sfide dei prossimi decenni – innanzitutto la transizione verde e la trasformazione digitale – così ben delineate nelle priorità politiche della Commissione von der Leyen. In particolare, vengono penalizzati pesantemente proprio quei programmi che l’esecutivo europeo aveva proposto di ritoccare al rialzo per allineare il nuovo bilancio alle priorità del piano di ripresa. Prendendo come riferimento la proposta della Commissione del 27 maggio e considerando i fondi messi a disposizione complessivamente dal bilancio ordinario e da Next Generation EU, l’intesa dei leader taglia la dotazione del programma di ricerca e innovazione Horizon Europe, dai 94,4 miliardi proposti da von der Leyen a 80,9 e riduce massicciamente il programma d’investimento InvestEU, da 31,6 ad appena 8,4 miliardi.
Il tutto eliminando (le conclusioni del Consiglio non ne fanno menzione) il nuovo dispositivo per gli investimenti strategici (Strategic Investment Facility), che si proponeva di mobilitare fino a 150 miliardi con l’obiettivo di migliorare la resilienza dei settori strategici e investire nelle catene fondamentali del valore del mercato interno. Non solo: il nuovo programma EU4Health, finalizzato al potenziamento della sicurezza sanitaria, alla preparazione alle crisi sanitarie future, all’approvvigionamento di farmaci e dispositivi medici essenziali, vede azzerata la quota erogata dal Recovery Instrument, e si riduce da 9,4 miliardi a 1,7. Il Just Transition Fund, istituito per mitigare le conseguenze socio-economiche del Green Deal, passa da 40 a 17,5 miliardi. Viene ritoccata al ribasso la dotazione di Digital Europe, il nuovo programma europeo dedicato al digitale (da 8,2 a 6,8 miliardi), e tagliati pesantemente i finanziamenti destinati alla cooperazione internazionale (da 118 a 98 miliardi).
Il quadro che emerge da questa serie di dolorosi tagli indica chiaramente che i programmi “davvero” europei, com’era prevedibile, sono rimasti schiacciati dagli interessi contrapposti dei due fronti che si sono sfidati al Consiglio: da un lato i Paesi del blocco Sud-europeo, favorevoli a un bilancio ambizioso ma ancor di più interessati molto comprensibilmente a salvaguardare i trasferimenti diretti del Recovery Fund e le vecchie priorità del bilancio (politica di coesione e politica agricola). E dall’altro i frugali, d’accordo a parole alla cosiddetta modernizzazione del Quadro finanziario pluriennale, ma alla fine più che altro concentrati a ridurre a qualsiasi costo il proprio contributo al bilancio comune. Nel mezzo, la Commissione europea, l’attore che più di altri esce penalizzato dalla maratona negoziale, ancora una volta incapace di far valere la ragione comunitaria sulla dinamica intergovernativa. L’esecutivo Ue vede ridursi pesantemente la quota di bilancio sotto la propria diretta gestione e il complesso dei tagli solleva più di un interrogativo sulla capacità della Commissione von der Leyen di implementare con efficacia la propria agenda politica nei prossimi quattro anni.
LA GOVERNANCE DEL FONDO E LA VITTORIA ITALIANA
La modalità di allocazione dei finanziamenti del Recovery and Resilience Facility e la governance complessiva del fondo si sono rivelati uno dei nodi più difficili da sciogliere dell’intero vertice. Il Consiglio ha stabilito che il 70% delle sovvenzioni erogate dal dispositivo dovrà essere impegnato nel 2021 e nel 2022 mentre il restante 30% dovrà essere stanziato interamente entro la fine del 2023. L’accordo tra i leader riduce dunque da quattro a tre anni la durata del Recovery Fund, accontentando le richieste dei Paesi frugali.
Per vedersi assegnati i finanziamenti, gli Stati membri dovranno preparare “piani nazionali per la ripresa e la resilienza” in cui verrà definito il programma di riforme e investimenti per gli anni 2021-2023 (se necessario, i piani saranno poi riesaminati e adattati, nel 2022, per tenere conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023). Dovranno essere innanzitutto coerenti con le raccomandazioni specifiche per Paese che la Commissione indirizza agli Stati nell’ambito del semestre europeo e in linea con le principali priorità europee (“l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale rappresenta una condizione preliminare ai fini di una valutazione positiva“). La valutazione dei piani spetterà alla Commissione e dovrà essere approvata dal Consiglio a maggioranza qualificata: nello specifico, per dare il via libera alle richieste di pagamento ai singoli Stati, l’esecutivo Ue chiederà il parere al comitato economico e finanziario (il gruppo consiliare che riunisce i rappresentanti a Bruxelles dei ministri delle finanze). A quel punto, “se in via eccezionale, uno o più Stati membri ritengano che vi siano gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali“, possono chiedere l’intervento del presidente del Consiglio europeo e il rinvio della questione al successivo Consiglio europeo. In questo caso, la Commissione, per dare luce verde ai pagamenti, dovrà attendere che il Consiglio europeo discuta “la questione in maniera esaustiva“.
È questo il cosiddetto super freno d’emergenza, chiesto a gran voce dagli Stati frugali, in particolare dai Paesi Bassi, come condizione minima per approvare l’accordo. Il meccanismo istituito consentirà, anche a un singolo Paese, di congelare l’assegnazione dei fondi, ma il blocco potrà avere una durata massima di tre mesi (a partire dalla richiesta di parere della Commissione al comitato economico e finanziario) e non sarà agevole da giustificare politicamente, in particolare se i dubbi sui piani nazionali verranno sollevati da un solo Stato membro. Soprattutto, però, tale modalità mantiene nelle mani della Commissione la decisione finale sull’esito della valutazione dei piani nazionali, e non consegna a un unico Stato il potere di veto sull’erogazione dei finanziamenti agli altri membri dell’Unione. Una condizione – fortemente promossa dai Paesi Bassi – che avrebbe potuto compromettere il funzionamento dell’intero Recovery Fund e che è stata per questo duramente, e con successo, ostacolata dall’Italia nel corso del negoziato.
I PROSSIMI MESI E IL RUOLO DEL PARLAMENTO EUROPEO
Per diventare definitivo, l’accordo complessivo raggiunto in Consiglio sul Piano di ripresa dovrà ottenere il via libera del Parlamento europeo. Gli eurodeputati hanno discusso e votato il 23 luglio una prima risoluzione di risposta all’esito del vertice dei leader, accogliendo positivamente l’istituzione del Fondo di ripresa, ma evidenziando una serie di criticità già in parte menzionate: dai tagli ai programmi europei e la mancata ambizione del bilancio comune all’assenza di certezza normativa sull’introduzione delle nuove risorse proprie e sul meccanismo per legare l’ottenimento dei fondi al rispetto dello stato di diritto (duramente contrastato da Polonia e Ungheria), fino alla rivendicazione di un ruolo sostanziale nella governance del Recovery Fund, dalla quale il Parlamento è stato completamente tagliato fuori.
Il voto di approvazione dell’Eurocamera verrà fissato dopo la pausa estiva, tra settembre e ottobre. Gli eurodeputati dovranno limitarsi ad accogliere o respingere in blocco il compromesso trovato dai Paesi membri, senza la possibilità di modificarlo. È possibile che da qui ai prossimi tre mesi il Parlamento ottenga alcune concessioni rispetto alle criticità sollevate, ma è altamente improbabile che sarà in grado di modificare in maniera sostanziale l’accordo raggiunto in Consiglio. Gli eurodeputati dovranno quindi scegliere se approvare il compromesso dei leader, rinunciando alla gran parte delle posizioni rivendicate a gran voce negli ultimi tre anni, oppure respingerlo mettendo in discussione la svolta storica del debito comune e a rischio la partenza di tutti i programmi del nuovo bilancio europeo prevista per il 1° gennaio 2021.