Il rapporto ICE 2019-2020 incrocia una congiuntura storica di grande rilevanza. La pandemia da Covid-19 ha determinato un generale ridimensionamento del volume globale di scambi e ha condizionato l’andamento della quasi totalità dei settori produttivi. È noto il ruolo che l’export riveste per l’economia italiana e che il suo peso rispetto al Prodotto interno lordo è andato crescendo senza interruzioni negli ultimi 10 anni: dal 24,9% del 2010 ha toccato il 31,7% nel 2019. Pressoché un terzo del Pil italiano, in pratica, è da attribuire alle esportazioni di beni e servizi, per un valore complessivo di 585 miliardi di euro.
Si tratta di una performance legata per la maggior parte alle attività delle piccole e medie imprese che caratterizzano il tessuto produttivo del nostro Paese. Si deve proprio a loro il 50% del valore dell’export italiano, una percentuale più che doppia rispetto a Francia e Germania, dove invece si attesta al 20%. Le imprese sotto i 50 dipendenti, invece, rispondono per il 20% del valore dell’export italiano. Ancora una volta, una percentuale doppia rispetto a Francia e Germania.
Per il 2019 le esportazioni hanno contribuito molto più dei consumi e degli investimenti alla crescita del Pil. Nell’anno trascorso la vendita di beni all’estero è cresciuta del 2,3% e quella dei servizi del 4,1. Un trend che ha permesso al saldo attivo della bilancia commerciale di crescere del 35% e alla quota italiana sulle esportazioni globali di mantenersi costante e pari al 2,8%.
Brilla la performance dell’industria farmaceutica, che ha incrementato le esportazioni di quasi il 26%, diventando il sesto settore dell’export italiano. Seguono, poi, i comparti tradizionali del Made in Italy, cioè la gioielleria (+8%), alimentari e bevande (6,6%), tessile e abbigliamento (+6,2%). E’ confermata, invece, la difficoltà del settore automotive, parte di una tendenza dalle dimensioni più ampie. L’export di autoveicoli è diminuito del 5% mentre quello di mezzi trasporto del 3. Guardando alle destinazioni, il rapporto evidenzia una dinamica positiva di crescita delle vendite verso il Giappone, la Svizzera e la Croazia.
Nei primi 5 mesi del 2020, tuttavia, l’export italiano si è contratto del 16%. Particolarmente significativa è stata la riduzione delle vendite verso i partner asiatici ed europei. Quelle verso l’India si sono ridotte del 34%, verso la Cina del 22% mentre verso Spagna, Regno Unito e Francia sono diminuite rispettivamente del 22, 21,5 e 18%. Anche durante la pandemia, le esportazioni degli articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici sono cresciute (+16%), così come i prodotti alimentari e le bevande (+4,3%). Gli autoveicoli, invece, hanno sofferto un calo per più di un terzo (-34,5%) e consistente è stata anche la riduzione delle vendite estere di prodotti tessili e dell’abbigliamento, pelli e accessori (-28%).
L’Agenzia ICE stima che saranno necessari due anni affinché l’export italiano ritorni ai livelli del 2019. Soprattutto sarà importante orientarsi verso i mercati e i settori che più dovrebbero ampliarsi. Tra i primi, si trovano alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale (al 2022 Repubblica Ceca, Romania e Polonia dovrebbero aumentare l’import per percentuali intorno al 20%), oltre alla Cina, alla Russia e alla Turchia (che dovrebbero collocarsi vicino al 17%). Va, inoltre, potenziata l’integrazione del Mezzogiorno nell’economia internazionale. Le regioni del Sud rappresentano solo il 10% dell’export italiano e le loro vendite all’estero costituiscono il 13% del Prodotto interno lordo aggregato dell’area. Una quota, come si è visto, molto ridotta rispetto alla media italiana e che richiede un impegno rafforzato da parte di imprese e istituzioni.