La rete unica e le sfide che attendono l’Italia


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Silvia Compagnucci
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Continua a tenere banco il tema caldo dell’estate 2020: la creazione di una società unica di rete italiana. Si tratta di una questione che storicamente è stata riproposta nel dibattito nazionale – si ricordi la discussione sullo scorporo della rete che impegnò a lungo, senza persuaderla, Tim – ma che ai tempi dell’emergenza sanitaria ha assunto nuovo slancio e attualità tanto da riuscire anche a ottenere il sostegno e l’incentivo da parte del governo. E anche se a livello generale le infrastrutture fisse e mobili sono riuscite a sostenere il maggior carico frutto del ricorso della maggior parte dei lavoratori italiani allo smart working, alla didattica a distanza e al maggior ricorso all’entertainment online, sono emerse differenti performance nelle varie aree del Paese che hanno rilanciato con maggior vigore e urgenza l’annoso tema del ritardo infrastrutturale italiano.

Nonostante siano notevoli i progressi dell’Italia nel processo di infrastrutturazione, soprattutto a partire dall’adozione nel 2015 della Strategia nazionale banda ultralarga, la strada per realizzare gli obiettivi rimane ancora lunga.

In un contesto in cui Oper Fiber si è posta nel mercato come soggetto catalizzatore della concorrenza infrastrutturale (con una forte accelerazione sull’FTTH, la tecnologia più performante), è tornato di attualità il dibattito sulla cosiddetta rete unica, cioè sull’opportunità di avere un’infrastruttura per le connessioni fisse gestita da un unico soggetto deputato a occuparsi dello sviluppo della rete e della vendita all’ingrosso agli operatori per l’utilizzo della propria infrastruttura.

Si tratta di un questione che si sta materializzando in una complessa operazione. In particolare, il consiglio di amministrazione di Tim ha approvato la creazione di FiberCop, una società che gestirà la sua rete secondaria, ossia quella che porta le connessioni dagli armadietti alle singole abitazioni sostituendo gli attuali cavi in rame con quelli in fibra e che sarà posseduta per il 37,5% dal fondo statunitense Kkr, per il 4,5 da Fastweb e per il restante 58% da Tim. Da questa nuova realtà nascerà, entro il primo trimestre del 2021, una nuova società, AccessCo, frutto della fusione tra FiberCop e Open Fiber.

Quanto ai rapporti tra Tim e Cassa Depositi e Prestiti (che possiede il 9,7% di Tim e il 50% di Open Fiber), la prima deterrà almeno il 50,1% di AccessCo. Con un sistema di gestione condiviso con Cdp dovrebbe essere garantita l’indipendenza e la terzietà della società. Secondo quanto reso noto dalla stampa, la maggioranza del capitale della società unica della rete dovrebbe rimanere in capo a Tim mentre Cdp dovrebbe avere la maggioranza nel consiglio di amministrazione e sarà quindi titolare di importanti poteri di veto. A Tim dovrebbe spettare l’indicazione dell’amministratore delegato, che dovrà ricevere il sostegno di Cdp, mentre il presidente dovrebbe essere nominato da quest’ultima con il supporto di Tim.

Se questi sono a grandi linee i punti emersi finora, numerosi dubbi e perplessità permangono in merito a un’operazione che non ha eguali in Europa e che, nonostante il condivisibile intento di non duplicare gli investimenti infrastrutturali e di farli convergere con l’obiettivo di rendere più efficiente l’infrastruttura del Paese garantendo una maggiore capillarità sul territorio nazionale, comporta il ritorno a una situazione di monopolio infrastrutturale che pone una serie di importanti rischi da scongiurare. Più nel dettaglio, va assicurato – pure mediante eventuali penali – che tale società garantisca un certo livello di investimenti anche in mancanza di una pressione competitiva come quella attualmente esistente nel mercato. Inoltre, è necessario predisporre meccanismi di responsabilità chiari che scongiurino il rischio per lo Stato di esporsi con risorse pubbliche per sopperire a eventuali carenze gestionali, garantire procedure e strumenti in grado di assicurare in maniera trasparente ed efficace la parità di trattamento tra tutti i soggetti che chiederanno l’accesso alla rete, chiarire la posizione di Enel e decidere le modalità di gestione delle reti FTTH di proprietà di Infratel.

Non c’è dubbio che il dialogo è ancora aperto e che l’Antitrust e le istituzioni europee saranno chiamate a pronunciarsi su questa operazione. Ma allo stesso tempo sembra chiaro che se l’esperienza europea ha dimostrato che i migliori risultati in investimenti in fibra ottica sono stati raggiunti dall’unione di concorrenza e regolamentazione (e dove necessario anche aiuti statali), i nostri decisori politici si trovano di fronte a una sfida importante da cui dipende in larga parte il futuro del digitale in Italia. La creazione di una società unica della rete, infatti, rappresenta una scelta di politica industriale in grado di produrre un impatto enorme sull’innovazione e, in ultima istanza, sulla competitività del Sistema Paese.

Vicepresidente dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Tor Vergata nel 2006 ha partecipato, nel 2009, al master di II Livello in “Antitrust e Regolazione dei Mercati” presso la facoltà di Economia della medesima università conseguendo il relativo titolo nel 2010, anno in cui ha conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense.

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