Il decreto firmato dal presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, il 18 ottobre scorso ha sottolineato ancora una volta l’importanza dell’utilizzo dello smart working per arginare la seconda ondata di contagi da coronavirus. Nonostante non contenga alcuna disposizione specifica sul tema, il testo fa appello a tutti i soggetti pubblici e privati affinché riducano al minimo possibile le attività lavorative in presenza. Per adeguarsi a quanto stabilito dalle ultime disposizioni, il ministro per la Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone, ha emanato un decreto sullo smart working che prevede, appunto, per le pubbliche amministrazioni un ricorso immediato al lavoro agile del 50% del personale impegnato in attività che possano essere svolte anche da remoto.
Un utilizzo così ampio del lavoro da casa per un periodo tanto prolungato apre indubbiamente la discussione circa la capacità del personale dell’apparato pubblico di gestire le proprie attività lavorative a distanza. Secondo l’Istat, prima della pandemia solo l’1,2% dei lavoratori dipendenti italiani (pubblici e privati) aveva accesso allo smart working. Durante il lockdown, nello specifico nei mesi di marzo e aprile, questa quota è cresciuta di oltre 6 volte, fino a raggiungere l’8,8% del totale dei lavoratori (da meno di 300.000 si è arrivati a oltre 2 milioni).
Un’indagine condotta da FPA (Digital 360) a cui hanno preso parte 4.262 dipendenti pubblici evidenzia come nel 2018 solo l’8% delle pubbliche amministrazioni aveva iniziato a utilizzare forme di lavoro agile. A seguito dello scoppio della pandemia, la quota di dipendenti pubblici che ha avuto accesso allo smart working ha raggiunto il 92,3% e per l’87,7% si è trattato della prima esperienza. Dallo studio emerge comunque un bilancio positivo: il 69,5% dei partecipanti all’analisi ha affermato di essere riuscito a “organizzare e programmare meglio il proprio lavoro”. Per il 41,3% è migliorata l’efficacia del proprio operato mentre per il 20% anche la relazione con i colleghi ha avuto un miglioramento. Il 93,9% ha espresso la volontà di continuare a utilizzare questa modalità di lavoro anche se per il 66% deve essere integrata con rientri in ufficio organizzati e funzionali.
E’ comunque utile sottolineare che quello svolto dalla maggior parte dei dipendenti pubblici (e non) è assimilabile più al telelavoro che a un vero e proprio smart working. Il passaggio al lavoro smart non è riconducibile esclusivamente allo spostamento della sede dove si svolge la propria mansione (ad esempio dall’ufficio all’abitazione). Piuttosto consiste nel ripensare l’attività in modo flessibile affinché sia orientata più al raggiungimento dell’obiettivo che alle modalità con cui lo si fa. Occorre dunque, in un’ottica futura, cominciare a pensare a una riorganizzazione della pubblica amministrazione tale da adattare i processi interni a modalità di lavoro innovative.
Nelle intenzioni del governo italiano, già prima della diffusione della seconda ondata della pandemia, c’era la volontà di proseguire con questa modalità di lavoro per una quota di dipendenti pubblici che va dal 30 al 40% anche dopo la fase di emergenza. Per proseguire su questa strada è però necessario che le amministrazioni facciano una seria riflessione su come incrementare il livello di competenze digitali dei propri dipendenti. Se così non fosse, il rischio è che al crescere della percentuale di lavoratori agili corrisponda un incremento dei disservizi per i cittadini che necessitano di accedere ai servizi pubblici.