di Beppe Moro, allievo del Master Program Inside USA 2020 Ambasciata America in Roma
È successo tutto quello che effettivamente si sapeva da mesi. Era già tutto previsto, provare per credere: capitolo IV del libro “Eleggere il Presidente” di Francesco Clementi e Gianluca Passarelli (Marsilio editore). Soprattutto il timing della transizione verso il 46° POTUS, così riassunta: dal Super Tuesday alla sfida fino alla Corte Suprema (il 3 novembre e il 14 dicembre), l’insediamento del nuovo Congresso (dal 14 dicembre al 6 gennaio) e infine, ma non da ultimo, l’insediamento del nuovo presidente (dal 6 gennaio al 20 gennaio).
Nessun off-topic. Da un lato, Joe Biden risulta il candidato presidente più votato della storia americana ed ha superato persino Barack Obama (2008) e sappiamo, anche, che questo dato, in termini di ripartizione dei grandi elettori, va bene solo per le statistiche da aggiornare e non per il più complesso quoziente elettorale. Inoltre, si è avverato il ribaltone negli stati del Midwest dai monti degli Appalachi settentrionali ai grandi laghi: la rust belt, la cintura di ruggine. Infine, The Squad si conferma al Congresso, anzi raddoppia: Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Ayanna Pressley, i democratici più influenti dei prossimi quattro anni assieme a Kamala Harris.
Dall’altro lato, Donald Trump fuma e tuona con il suo capo comunicazione e i legali proprio su gli Stati che gli hanno dato la vittoria nel 2016: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. E, allo stesso tempo, i repubblicani – a partire da Mitch McConell – non sembrano volerlo seguire, perché tengono il Senato (con un possibile pareggio rotto solo dal prossimo VP), hanno il controllo delle Corti (Corte Suprema in primis) e sono andati meglio del previsto alla Camera. Se dovessero perdere il prossimo presidente, per loro sarebbe una “non sconfitta” a tutti gli effetti, da cui poter ripartire.
In tutto questo ci sono gli eventi che si susseguono di minuto in minuto e mettono da parte tutto: persino la pandemia. Insomma, se la campagna elettorale (a proposito di eventi) non è stata all’altezza delle aspettative di tutti – elettori, attivisti, americanisti e semplici appassionati come me – il post Super Tuesday è davvero straordinario.
Nella straordinarietà un elemento su tutti: il voto per corrispondenza. Gli americani hanno privilegiato il voto per posta. Lo sapevano i due sfidanti. Soprattutto Trump e i repubblicani avendo depositato – in tutti i 43 gli Stati (più il distretto di Columbia) dove si vota per corrispondenza – ricorsi presso le rispettive Corti Federali e persino la Corte Suprema, quest’ultima recentemente rinnovata a favore del presidente uscente. I ricorsi sono stati puntualmente tutti respinti, anzi la Corte Suprema ha deciso di allungare i tempi sapendo che l’infrastruttura materiale del servizio postale (capitale umano e banalmente cassette della posta) non è all’altezza del delivery elettorale da COVID-19.
Il voto per corrispondenza è il più sicuro. Lo dicono i numeri della Heritage Foundation. Nel loro database sono riportatI circa 1.200 ricorsi per frode degli elettori dal 2000. Di questi, solo 204 accuse riguardavano votazioni per corrispondenza sul totale di 250 milioni di schede elettorali restituite via posta in questi due decenni in esame. Non servono le percentuali a dirci quello che già sappiamo. Provo a spiegarlo con un evento della vita ordinario: in molti Stati un cittadino americano percorre 2 ore al giorno per raggiungere il primo market alimentare più vicino. Per quale motivo dovrebbe mettersi in fila per votare di persona?
Le frodi sono rare e le condizioni di svolgimento di tale voto rendono agevole l’individuazione e il relativo blocco del processo elettorale in caso di frode. Quindi, niente banda dei falsari. Lo certificano anche gli osservatori internazionali guidati dall’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, nelle preliminary conclusions.
E ce lo spiegano molto bene Jake Grumbach, docente di scienze politiche all’Università di Washington, e Charlotte Hill, ex commissario elettorale e studiosa delle leggi sul voto: “Il processo di votazione per corrispondenza ha diverse salvaguardie integrate che insieme rendono difficile per una persona votare in modo fraudolento e ancora più difficile commettere frodi elettorali in dimensioni tali da incidere sui risultati delle elezioni”.
Dunque, dalle espressioni del voto utilizzate (mai banali: “fill in the bubble”, “connect the arrow”, “darken the box”) al testo sulle schede, che è diverso da collegio a collegio (proprio perché i candidati presidenziali sono gli stessi in tutta l’America, ma ogni Stato elegge persone diverse, così come il voto coinvolge incarichi diversi: governatori, procuratori generali e così via) è tutto facilmente tracciabile. Ed ancora, la busta ufficiale del Governo ha un codice a barre univoco (utile per contraddistinguere l’elettore e per sapere lo stato di spedizione del proprio voto).
Quindi, nell’era degli immediati ci si chiede: perché ci vuole così tanto tempo? Semplice. Il controllo dell’identità di voto è la fase che porta via il tempo maggiore, proprio perché ci vuole più tempo per gli operatori elettorali per aprire, verificare le firme e contare le schede elettorali per corrispondenza di quanto non ce ne voglia per gestire solo la macchina per il voto del Super Tuesday. Oltretutto, alcuni Stati non consentono l’apertura delle schede per corrispondenza fino al giorno delle elezioni e in altri (vedi la Pennsylvania) vengono prima scrutinati i voti del Super Tuesday e poi quelli del voto per corrispondenza. That’s All Folks: è l’America.